Artstudio visit

Officine Ouragan: studio visit a Roberto Orlando

 

Per Roberto Orlando “l’abitare” è un impegno artistico e nel suo studio ci si muove fra grandi mappe, paesaggi e architetture paradossali, prodotti di una pittura che sfida le dimensioni e lo spazio stesso.

 

Bisogna addentrarsi, muoversi fra le contraddizioni e le contrapposizioni, trovare la strada tra le decorazioni e le architetture di radice islamica, tra la bellezza assoluta delle statue e dell’amara decadenza immobile nel tempo. Ed è già nel tragitto fisico che mi perdo con lo sguardo e con la mente; suggestioni inevitabili, dalle quali è impossibile non farsi catturare e che scopro non aver catturato solo me.

 

Roberto Orlando nel suo studio alle Officine Ouragan (ph. Antonio La Ferlita)

 

Nel pieno del centro storico di Palermo a due passi dall’imponente cattedrale, Roberto Orlando mi apre le porte del suo studio all’interno del nobiliare Palazzo Cupane in Piazzetta Montevergini, storico palazzo un tempo abitato dalla famiglia Branciforte principi di Butera, che mantiene al suo interno strutture ed elementi in stile liberty.

Un’elegante corte interna raccoglie gli ultimi raggi di un sole autunnale al tramonto prima di entrare nel vero e proprio studio di Orlando; ad attirare la mia attenzione non appena dentro è una lunga parete interamente in marmo con due incavi ovali che costeggia un ampio spazio ordinato e circondato da opere al muro. Mi trovo in un’antica stalla e i due incavi marmorei sono ciò che rimane delle mangiatoie dei cavalli nobiliari. Qui, proprio prima dell’ampio spazio di verifica, vi è la vecchia stalla di Ouragan, quello che fu il cavallo più veloce di Palermo, motivo per cui lo studio prende il nome di Officine Ouragan e che oggi è la parte dedicata all’attività di Orlando. L’ampio spazio è diviso in ulteriori stanze in cui lavorano altr* quattro artist* (Elena Fusco, Lara Cuppari, Margherita Pedrotta e Silvia Pirrotta), ma ad occupare le pareti sono le grandi opere di Orlando.

 

 

Partiamo dalle grandi mappe, opere complesse, di grandi dimensioni e dai colori sgargianti. Non posso fare a meno di notare che mentre Orlando mi descrive il suo lavoro e l’approccio alla sua ricerca, si muove, occupa lo spazio come un bambino impegnato in una timida danza di allegria. Certamente questo tipo di comportamento potrebbe suggerire una pazzia di fondo, ma non mi disturba, anzi mi fa comprende come l’appropriazione dello spazio –ciò che sta facendo attorno a me– è parte indissolubile del suo approccio artistico. Le mappe che realizza, sono di fatto visioni apparentemente astratte dall’alto di impianti architettonici totalmente immaginari, inseriti in nere cornici pittoriche riprese dalle più note cornici di Palazzo Butera che Orlando ripropone nel suo stile quasi gelatinoso.

Ogni elemento ha un suo peso, una funzione e una rilevanza; tutto ciò determina l’ordine di lettura dei dipinti di Orlando, spesso accompagnati da un’anonima legenda che si limita a dare all’osservatore l’ordine in cui considerare ogni parte. Ville nobiliari, ampi giardini con piante appositamente idealizzate dall’artista che in alcuni casi riprendono forme note e reali, altre volte mutano in composizioni cromosomiche.

Tutto parte dalla materia, l’oggetto reale che attraverso il gesto artistico, perde la sua iniziale dimensione di appartenenza e viene ricollocato in una nuova dimensione. In un secondo momento quello che era l’oggetto diventa forma; una forma nuova, al limite fra la forma pittorica e architettonica. In questa dicotomia Orlando naviga per la creazione di mondi, paesaggi e luoghi paradossalmente abitabili (un impegno artistico di cui avevamo parlato nell’analisi della sua ultima mostra).

 

 

Nell’opera Come Domus 9 –che Orlando mi mostra con particolare soddisfazione mentre conversiamo su questo suo continuo utilizzo degli oggetti per ricreare ambienti abitativi– ritrovo delle strutture che idealmente mi riportano al progetto della New Babylon di Constant –una città utopica e costruita in modo rialzato in modo da restituire all’abitante la sua primordiale natura nomade. Sono delle villette a schiera all’interno di uno spazio verde calpestabile, ma che hanno due particolarità: la prima per l’appunto è che trasmettono subito il fatto di essere sospese e la seconda è che ricordano le squadrette da disegno. Non è difficile comprendere come il luogo in cui lavora Orlando e le architetture frequentate, spesso caratterizzate da corti interne, siano fortemente di ispirazione e di fatti non smentisce che tutto parte proprio da lì, ovvero dalla considerazione di un oggetto comune al quale viene data la possibilità di diventare un luogo da abitare. Aggiunge infatti “Io dipingo queste villette a forma di squadrette sollevate sperando che un giorno, realmente, qualcuno possa abitare all’interno di una squadretta sospesa”.

 

Roberto Orlando, Come Domus 9, 2022

 

Passiamo a Come Giglio, una serie ancora in fase di completamento, appendice dei precedenti lavori e che sfruttando la forma verticale della tela –ora di dimensioni più ridotte e intime– ricostruisce paesaggi interiori non più sotto forma di architetture, ma come decorazioni di un’architettura che le contiene: il corpo. È un lavoro in cui le linee del pennello e le forme si intrecciano fra loro costruendo strutture formalmente incomprensibili, complesse, ma che costituiscono la “semplice” identità dell’io. Dunque l’individuo non è solo l’unità che abita, ma è anche unità abitata; una dualità imprescindibile nel lavoro di Orlando, poiché le architetture e gli oggetti sui quali riflette, altro non sono che corpi, delle masse fisiche che svolgono funzioni correlate all’abitare e all’essere abitate.

 

 

Prima di andare, Orlando vuole mostrarmi un ultimo lavoro al quale si dedica da quattro anni e che mi comunica essere in continua crescita. Con la stessa eccitazione di un bambino che vuole mostrare i suoi giocattoli più belli ai suoi amichetti, ma con la serietà dedicata al suo lavoro d’artista, inizia a predisporre sul pavimento ligneo della grande sala centrale, uno dopo l’altro fogli della stessa misura, che rappresentano lo stesso soggetto, ma di materiali diversi. Piano piano Orlando invade tre quarti dello spazio, collocando in modo meticoloso ogni singolo elemento. Nel vederlo operare cerco di trovare in silenzio una logica al posizionamento di ogni foglio, inizio a credere che siano accostati per tonalità di sfondo, ma subito dopo Orlando tira fuori un altro pezzo e smonta il criterio che credevo; allora inizio a rivedere associazioni compositive, ma neanche il tempo di convincermi e lui ha già smontato quella logica con un altro elemento dalla composizione del tutto differente. Ci rinuncio e gli domando che criterio stesse utilizzando per disporre questi lavori ormai giunti fino ai miei piedi, lasciandomi spalle al muro, data la tanta attenzione che ci metteva. La sua risposta mi sconvolge “Nessuno”. Capisco in quel momento che Orlando non è un artista dell’immediato, non è quello spirito che si abbandona e che lascia all’istante la decisione del suo lavoro, perché anche quando non c’è un criterio compositivo, la sua mente sta costruendo una struttura con estrema dedizione, è di nuovo un processo immersivo di costruzione continua e ragionata, che nasce secondo per secondo senza essere lasciato al caso. Lilium è il nome di quest’opera immensa, nata da una riconsiderazione delle ninfee di Monet che Orlando ripropone sotto nuovi aspetti, stili e in ogni elemento con nuove tecniche e che ha la finalità di invadere uno spazio architettonico dall’interno, ignorando le superfici e le loro direzioni, così da sfruttare ogni componente come “mattoncini” che ricostruiscono un nuovo ambiente da zero.

 

 

Ci salutiamo, fuori il cielo è ormai buio e ad illuminarmi la strada sono le luci arancioni dei vicoli di Palermo; non posso fare a meno di ripensare alle architetture di Orlando e ai dedali che ripropone. Mi sembra di essere caduto in un suo dipinto, ma nulla è per caso.