Art

In diretta con Fulvio Ravagnani

Di Anna Papale

 

Venerdì 20 marzo abbiamo avuto il piacere di conversare con il curatore Fulvio Ravagnani. Il format “Intervista in diretta” è arrivato al suo quarto appuntamento (potete  leggere le interviste precedenti sul nostro sito #1,#2,#3 e riguardare le dirette sulla nostra IGTV). Noi di Balloon abbiamo approfondito l’esperienza sul campo di Fulvio per fermarci e comprendere le possibili ripercussioni che un momento storico inconsueto può avere sul sistema dell’arte in ogni sua accezione. L’attività poliedrica del nostro ospite ci ha permesso di riflettere sui vari ambiti in cui investe la sua versatilità. Un operatore culturale a 360 gradi che ha soddisfatto con estrema leggerezza i nostri dubbi e le curiosità degli utenti che hanno interagito.

 

Vista la tua attività in ambito comunicativo hai notato, se ci sono, delle differenze dall’insorgere dei social, dal loro imporsi proprio in questo momento senza precedenti? Facendo un paragone potresti fare per noi un bilancio per quanto approssimativo sulle tue impressioni?

Parlando di arte contemporanea, i social hanno trasformato la nostra percezione e il consumo di cultura visiva e arte contemporanea. Da un lato ha smaterializzato il rapporto fisico e diretto del fruitore con i manufatti dell’arte contemporanea, ulteriormente depotenziato dal filtro che ognuno di noi possiede al momento dell’osservazione, il proprio smartphone. Sicuramente queste estensioni tecnologiche ci permettono di partecipare a mostre, eventi, o una diretta, anche dall’altra parte del mondo. Malgrado questi poteri, si tratta comunque di un filtro che vuol dire anche barriera, un limite tra noi e ciò che guardiamo. Una prima differenza è dunque risentita a livello percettivo in egual misura sia dagli operatori che dai fruitori.

In questa contingenza particolare, l’uso dei social ci permette di gestire i vuoti e le ansie dovute alle condizioni a cui siamo obbligati e allo stesso tempo di essere partecipi, seppur a livello virtuale. Tuttavia il ritorno alla realtà, ai presidi normali di contatto, dovrà suscitare interrogativi sulla qualità della percezione e della partecipazione che abbiamo da sempre ritenuto cosa ordinaria e dato per scontata, in funzione di un apprezzamento futuro e maggiore. Io rifletto sulle libertà preziose che abbiamo da sempre e su quanto ne abbiamo goduto magari non pienamente coscienti.

 

Hai realizzato tantissimi progetti home made nel senso letterale della locuzione (curatela dell’Archivio Gabriella Crespi durante la Triennale e My little house nato nel 2014) un’iniziativa dal basso che potrebbe rivelarsi utile quando supereremo questo periodo di stasi, ti va di parlarcene? Come possono essere rivisitati questi concept e attualizzati in un momento storico come quello che stiamo vivendo?

Il godere dell’arte domestica è un’attitudine che esiste fin dall’epoca classica. Il mercato e il mondo dell’arte contemporanea hanno sicuramente subito nel corso degli anni un’accelerazione verso la dimensione pubblica e spettacolare, a vantaggio dell’esposizione mediatica, a discapito dei contenuti e dell’essenza. Il desiderio che mi ha spinto a sviluppare il progetto era quello di creare delle mostre che avvicinassero direttamente l’artista al pubblico, che disintermediasse le barriere – che citavo prima a proposito dei social – riferendomi stavolta ai limiti che ci poniamo concretamente attraverso gli strumenti tipici di un’esposizione, i quali paradossalmente perdono di vista l’obiettivo, “intimorendo” il pubblico. My Little House nasce nel 2014 dalla volontà di creare un punto di contatto attraverso la messa in discussione delle consuete dinamiche espositive. La mostra infatti si sviluppa all’interno delle mura domestiche messe a disposizione volontariamente dal padrone di casa che ospita per sette giorni un artista, ibridazione tra i concetti di home gallery e residenza d’artista. Il successo più sorprendente del progetto credo sia stata la risposta delle persone, soprattutto coloro che si definivano profani, nonostante una comunicazione scarna, consistente nel semplice passaparola della gente. La conquista è stata aver accolto le persone in uno spazio e averle invitate a godere individualmente dell’opera esposta, spiegata attraverso le parole dello stesso artista o ancor meglio del padrone di casa. Quest’ultimo si è rivelato vero e proprio curatore sebbene a un livello più profondo, in quanto ha assistito alla creazione non solo della mostra bensì dell’opera stessa, in grado dunque di trasferire la sua vicinanza al progetto a tutto il pubblico, profano e non. È stato bello inoltre notare nel corso delle varie edizioni come siano state le case ad aprirsi spontaneamente alla nostra idea e non al contrario.

Il concept è assimilabile a al lavoro svolto per l’Archivio Gabriella Crespi. La designer ha condotto una vita che azzardo a definire scenografica e l’opportunità di entrare nella sua dimora ci ha permesso di conoscere la sua dimensione privata, il suo lavoro e soprattutto gli aspetti più intimi e personali della sua vita. In sintesi e in buona sostanza tutto ciò che oggi i social ci hanno indotto a fare. Attraverso questi progetti avevamo intuito che il metodo più efficace per avvicinare le persone all’arte più ostica, complicata e lontana come quella contemporanea era farli accedere dal retro, portandoli attraverso la curiosità, lo spirito voyeuristico, ad attenzionare il nostro settore.

Sarebbe bello usare il tempo di reclusione per sfruttare e vivere più intensamente le nostre case, viste le vite sempre più nomadi a cui la società ci costringe. Potremmo allestire la My Little House virtuale, costruire un dialogo tra la nostra quotidianità e quella di un’artista che può leggerla attraverso i propri filtri. Ognuno di noi può approfittarne per entrare in contatto con un artista, e domandarsi: “Cosa ce ne facciamo dell’arte contemporanea?”.

(Puoi trovare qui i racconti delle edizioni di My Little House #1, #2, #3, #4)

 

Sei dentro il mondo accademico come responsabile del Coordinamento Accademico dello Ied di Milano – Istituto Europeo di Design – dal 2011 a oggi per il corso triennale di Design della Comunicazione. Nella fase organizzativa e quindi la più difficoltosa, come viene gestito l’insegnamento dell’arte contemporanea che tra i tanti ritengo sia il più fluido e quindi probabilmente il più difficoltoso da programmare?

In generale in tutte le accademie e i presidi in cui si insegna arte in modo tradizionale o meno, dunque intendo anche i licei, credo non ci sia una strategia giusta o sbagliata. A prescindere dai percorsi codificati e ministeriali ritengo che la cosa più bella in questo tipo di insegnamento sia non tanto la sperimentazione quanto la libertà di lasciare al singolo studente di vivere un’esperienza diretta e personale del docente che ha di fronte. La grande energia, il fulcro della didattica è incarnato dal docente e non da un programma. I ragazzi conoscono bene gli strumenti di cui hanno bisogno per fare ricerca e sono in grado di condurla da soli. Non bisogna al contrario ingabbiare le capacità di interconnessione proprie di un docente. Abbiamo dimenticato il valore delle scuole, intendo le scuole di pensiero di cui ogni docente è portatore e che di conseguenza lo studente assorbe, viene inglobato nel suo flusso. Talvolta i docenti vanno per la loro unica direzione e non è da biasimare perché abbiamo bisogno di confrontarci con visioni forti e/o fuorvianti in modo da riuscire dopo a districarci nel nostro singolo percorso. La fortuna di trovarsi davanti a un docente che espone la sua prospettiva è quella di carpire gli strumenti che altrimenti non saremmo in grado di accaparrarci. Nella particolare dimensione dell’insegnamento di arti creative e visive è fondamentale acquisire diversi punti di vista da mettere a confronto per costruirsi una propria posizione liberamente; se non abbiamo libertà individuale la creatività di cui si nutre il nostro settore si spegne. Dobbiamo essere un po’ meno giudici e più liberi, malgrado tutte le difficoltà che derivano dal dover scostarsi da un programma prestabilito. La libertà presuppone mettersi in gioco, esporsi: atteggiamenti che la classe sembra precludere perché implicherebbero maggiore esposizione. Il rischio di essere passibili di critiche è lo stesso che si avverte nei social, in cui solo in pochi si esprimono realmente o avanzano delle critiche. Nessuno nella vita di tutti i giorni è disposto o preparato alle critiche, le stesse di cui l’insegnamento ne trarrebbe giovamento (solo nel caso in cui siano costruttive).

 

Vista la tua attività in ambito editoriale, quali pensi siano le strategie più efficaci per ‘svecchiare’ un mondo che esiste da sempre e che per tale ragione ha il compito di stare al passo con i tempi?

L’editoria è in crisi da parecchio tempo ma fortunatamente non per i suoi contenuti; la sua offerta è enorme e sarebbe difficile non trovare ciò che più ci interessa nella sua vasta proposta. Il problema è bensì di fruizione e delle modalità in cui gestiamo il nostro rapporto con ciò che vogliamo leggere. Bisogna trovare il tempo e primariamente il desiderio di superare la barriera social di cui prima, di non fermarsi al semplice post ma leggere l’intero articolo o saggio. È una sfida di medium: come possono mille battute o mezz’ora di lettura vincere su mezz’ora di scroll della home page di un qualsiasi social? Nel primo caso si legge solo su un determinato tema, nel secondo si recepiscono più stimoli sebbene solo apparentemente, perché la conoscenza si ferma a un grado superficiale. In un’epoca di consumi che ci impone di essere famelici e costantemente presenti, il mercato editoriale si ritrova da solo a trovare le forze per invertire la rotta. Fintantoché il fruitore non viene accompagnato nelle sue scelte, nessuna strategia di marketing o campagna social può reggere la lotta. Giacché non è una questione di ampliamento del proprio pubblico ma di educare il target ed evitare che si riduca a un’élite.

 

Le domande della chat

 

Quali sono secondo te le differenze tra Nord e Sud nell’ambito delle arti visive e contemporanee?

Le differenze non sono strettamente legate alla posizione geografica perché ogni luogo ha dei punti di partenza differenti rispetto all’offerta già impiantata. Mi spiego: le differenze stanno nella possibilità o meno, maggiore o minore, di entrare in contatto con occasioni e/o eventi. Dunque la concreta presenza di numerose occasioni e spazi pubblici ben finanziati al Nord avvicina maggiormente il pubblico all’arte contemporanea. Nel resto d’Italia ci sono meno occasioni, tuttavia, anche durante il nostro iter per My little house abbiamo riscontrato una grande fame di contenuti. Dobbiamo essere noi ad avere il coraggio di portarli in contesti non consueti, non già saturi di proposte, in cui sono richieste e desiderate perché il pubblico si è mostrato sempre presente, dunque come strategia funziona.

 

Qual è, o potrebbe essere, il luogo di incontro (anche virtuale) più adatto alla discussione tra i diversi attori dell’arte contemporanea?

Attualmente se ci pensiamo non esiste un vero e proprio luogo; non ci sono associazioni o grandi realtà o momenti per fare dei bilanci collettivi o dei confronti. Anche l’arte come l’editoria è un po’ gelosa, spesso si riveste di mistero e di un po’ di intellettualismo di cui ha bisogno. Sarebbe bello fondare una Leopolda o gli Stati Generali dell’arte anche partendo tra noi che ne stiamo proprio discutendo. Non so però quanto e se i grandi operatori siano disponibili.

 

Quanto l’arte, ormai devota meno al sociale e più al sociale possa essere rivolta ai giovani? E cosa può significare arte contemporanea oggi?

Senza dubbio l’arte ha una dimensione molto social perché essenzialmente è visiva. È preda facile dei social e si lascia arrendevolmente prendere in ostaggio. È vero anche che questo potenziale social ha dato possibilità in più ad artisti, designer e ai creativi in genere, che sono ancora emergenti; una tra tante quella di essere contattati da realtà altrimenti inarrivabili. Credo dunque che questa sua moderna accezione abbia avvicinato i giovani all’arte contemporanea. Un monito da non dimenticare è quello di far capire ai profani la differenza tra un post su un social e vero e proprio lavoro artistico, il che richiede una soglia di tempo e di attenzione più alta.

L’arte nel corso del tempo non ha mai cambiato il suo significato e il suo scopo, ovvero donare uno sguardo diverso dalla realtà. Ha la facoltà e il dovere di rileggere i fatti e narrarli attraverso una visualizzazione più efficace ed incisiva. Pensiamoci: quanto l’arte del passato è servita a condensare oggi un momento o un fatto storico passato? Questo è il dono più utile dell’arte: sintetizza azioni, emozioni e storie in un’istantanea ed è una capacità che l’arte contemporanea non ha perso, interpreta i tempi e lascia una traccia indelebile, più densa rispetto alla semplice cronaca.