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Martina Rota: a Skype interview

 

Martina Rota è una degli artisti che, presso Via Farini/Archivio, sta partecipando al secondo ciclo di residenze. La sua attività artistica si muove intorno al corpo come mezzo di comunicazione e di esistenza che, insieme all’arte e al processo artistico, diventa “rifugio”, espressione di un linguaggio che racchiude emozioni, sensazioni, dolori che vengono declamati o conservati in attesa di manifestarsi. Martina Rota si forma presso l’Accademia di Belle Arti di Brera e studia Arti Visive; ha partecipato a diverse esperienze di formazione e workshop legati alla danza a Roma e Amsterdam.

 

Facendo riferimento alla tua formazione, a che livelli il corpo è elemento di comunicazione nel tuo lavoro?

La mia formazione si divide in due: un momento più “accademico” che ha riguardato lo studio delle Arti Visive e un momento simile a una montagna russa per lo studio e il rapporto col corpo.

Ho intrapreso vari percorsi: alcuni più professionali, altri amatoriali. Ogni situazione mi ha dato la possibilità di accrescere il mio bagaglio umano e culturale con un approccio multidisciplinare.

Ho iniziato a muovermi col corpo perché volevo la forma perfetta: quella pulita, quella che piace a tutti. Non l’ho mai raggiunta, ma ho imparato ad ascoltarmi, ad ascoltare anche quando non c’è tempo, ho imparato che, anche quando vorresti fare altro, il corpo non aspetta; ti parla con l’arroganza sincera di un bambino. Nella mia formazione la voce del corpo, spesso anche troppo insistente, non ha mancato di suggerirmi quando stavo per perdermi, quando era meglio tornare indietro, quando non ero pronta, quando era possibile rimandare e quando invece era necessario spingere al massimo.

Considero il corpo come una forma di intelligenza, un portatore di sorpresa, di avventura, di grande dolore, di imprevedibilità. Ed è questa imprevedibilità che mi eccita, mi muove e mi terrorizza; l’ossessione che un giorno mi possa svegliare e notare un ingorgo in tangenziale proprio sotto lo sterno, un segno di protesta degli altri esseri che abitano il corpo e forse, invece di bloccargli l’uscita, sarebbe molto più interessante creare un dialogo e candidarsi come autista di un mezzo che non so che strade prenderà. Il corpo è il mio promemoria che “chi si ferma è perduto”. Nel mio lavoro agisce su un livello di comunicazione come un’immagine, talvolta come pratica esperienziale che coinvolge emotivamente l’osservatore. Non amo stabilire un ruolo gerarchico tra i singoli elementi, preferisco stabilirlo a seconda della necessità del lavoro, del contesto. Sicuramente, il corpo è per me un luogo al quale ritornare spesso per ritrovarmi, per ripartire; qualcosa da cui ho sempre la possibilità di imparare, anche quando continuo a cadere.

 

Qual è il progetto che ti ha maggiormente coinvolto finora e in che modo?

Che domanda difficile, è un po’ come chiedere a una madre qual è il suo figlio preferito, e perché?

 

Come conti di sviluppare il tuo lavoro in VIR?

Ho diverse idee a riguardo, ma sono ancora nella fase bella, delicata e frustrante di fare pulizia tra le sinapsi, di capire cosa è necessario e quale direzione prendere dopo questo grande momento di cambiamento, in cui probabilmente siamo appena entrati.

Fare, fare, fare e, nel frattempo, ascoltare, se il tuo sentire si accompagna a un ritmo collettivo. Per ora parto da qui: studio il lavoro di altri artisti e faccio domande. Credo che questo sia un buon momento per farsi delle domande, immaginare, e avere fame.

 

C’è qualcosa che vorresti sviluppare in futuro e che attendi il momento giusto per elaborarlo?

Penso che il kairos, per quanto riguarda il sentire artistico, sia molto importante; avere una buona idea in un momento sbagliato, o meglio, non fertile rispetto alla realtà che si vive è la condanna dell’idea stessa: nel migliore dei casi rimane in stand-by, altrimenti viene donata a qualcun altro che, qualche anno dopo o dall’altra parte del pianeta, ne farà buon uso. Le idee hanno il tempo contato: quando arriva, un’idea non appartiene solo a te – il più delle volte si tratta di un’intuizione che è in circolo. Il primo che si fida di quell’idea è anche quello che la realizza.

Tre anni fa mi accadde un episodio singolare a riguardo: era l’inizio del mio ultimo anno in Accademia e stavo cercando di capire se avessi potuto realizzare un lavoro all’interno del cortile di Brera. Avrei voluto ricoprire l’interno cortile con della sabbia bianca, creando delle piccole dune, dentro le quali avrei poi dato vita a delle azioni coreografiche, visibili dalle scalinate che conducono alla pinacoteca.

Inutile dire che il progetto, di per sé molto ambizioso, non sono riuscita a realizzarlo, per via dei costi di installazione e disinstallazione. L’anno scorso Jil Sander – che amo molto, in occasione della fashion week, ha dato vita alla stessa immagine proprio nel cortile di Brera. In sostanza, le idee corrono, ma per il futuro ho un diario segreto.