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Intervista a Laura Lovatel e Federica Menin
di Maria Giovanna Virga

La seconda intervista del ciclo Live in Venice è dedicata a Laura Lovatel e Federica Menin, duo-artistico formatosi a Venezia, che con una sola voce raccontano la nascita e lo sviluppo dei loro progetti più importanti.

Quali sono state le dinamiche che vi hanno spinto a lavorare come duo?
La nostra collaborazione è nata dal comune desiderio di esplorare un’isola.
La scoperta del luogo andava di pari passo alla conoscenza tra di noi.
L’esplorazione collettiva è diventata modus operandi e possibilità di rivolgerci liberamente allo spazio e a noi stesse.

Questa dualità come si organizza nella progettazione e produzione dei vostri lavori?
Non c’è nel nostro lavoro una progettazione a tavolino e una messa in pratica, ma passi simultanei di ricerca e sperimentazione. Le risposte vengono da questa esperienza di presenza e di pensiero.

Ognuno dei vostri lavori sembra cominciare o esaurirsi per mezzo di azioni fisiche nello spazio da voi scelto. Che ruolo date alla vostra presenza all’interno degli scenari in cui decidete di agire?
La presenza in alcuni luoghi o situazioni specifiche è per noi fondamentale per attraversarne la loro indecifrabilità. La presenza è declinata come lento avvicinamento in contesti che negano o tendono verso l’eliminazione di questa possibilità. È inoltre un modo per rispondere, attraverso un approccio diverso, all’idea di progettazione che astrae da una relazione diretta, con il luogo, con le persone.

Gli scenari in cui agite sono sempre fortemente caratterizzati. Quali sono i criteri con cui scegliete i set che compongono i vostri lavori?
Molto spesso non è così chiaro il punto che ci conduce ad esplorare un luogo, e probabilmente è proprio per un complesso intreccio di livelli diversi che ne siamo attratte. Non sarebbe quindi possibile dare una risposta piuttosto che un’altra. Si tratta di un insieme di vicinanza fisica, affettiva, curiosità, incomprensione, conflittualità e casualità. In ogni caso, siamo spinte dalla necessità di non dare per scontati i luoghi che sono accanto a noi e le condizioni in cui si trovano, oltre che dalla consapevolezza che ogni luogo non è una sola unica storia da leggere o raccontare.

Le apparecchiature video e fotografiche sono gli strumenti che privilegiate per raccogliere quanto accade all’interno dei contesti in cui agite. La scelta di questi mezzi è dettata esclusivamente dal bisogno di registrare ciò che accade oppure da altre necessità espressive?
Il mezzo video è diventato, con il tempo, parte integrante dell’esperienza conoscitiva di un luogo. Cerchiamo un uso del mezzo che è fedele al contempo a sguardo e movimento. Lo consideriamo un mezzo duplice, che accoglie il carattere del luogo, i suoi movimenti, insieme alla nostra presenza attiva. Una duplicità di sguardo raddoppiata, se pensiamo che le nostre visioni si intrecciano sia in uno scambio diretto che indiretto, nel momento in cui riguardiamo il materiale. Per ora abbiamo sempre utilizzato videocamere piccole, handycam, che potessimo tenere facilmente in mano e passarci senza troppa difficoltà. Ma non escludiamo di provare a lavorare anche con videocamere più pesanti, che portano a un’osservazione più statica. Video, ma anche fotografie, testi e disegni, costituiscono per noi una sorta di altra mappa possibile.

In lavori come Elba (2012), The ballad (2011) e Ein, zwei, drei! (2011), luoghi di isolamento fisico, come le prigioni o i bunker, diventano degli osservatori privilegiati da cui osservare la realtà esterna. Cosa vi affascina maggiormente di queste “strutture di costrizione”?
Soprattutto con Elba e The Ballad abbiamo osservato da vicino due strutture di detenzione che sono quasi inosservate nei luoghi in cui si trovano, su un colle dell’Isola d’Elba e nella zona universitaria di Venezia. Architetture riconoscibili, ma a tratti paradossalmente invisibili nel contesto in cui si trovano, che aiutano anche noi a cambiare il punto di vista sulle cose.

Mentre ostacoli fisici come muri (Dormite sogni tranquilli, ma con un occhio aperto (2013)) e recinzioni (The ballad) o distanze fisiche (We couldn’t be anywhere else but here (2012)), sono spesso degli espedienti per trovare nuove modalità d’azione e di comunicazione nello spazio. Che valore ha il “limite” all’interno delle vostre opere?
Il limite mette in crisi la tua presenza, ti chiede un passo indietro, ti porta in una condizione scomoda e spesso stancante. Allo stesso tempo, il limite è un’interruzione che può ingrandirsi e divenire una dimensione essa stessa in cui non vi sono regole chiare ed è possibile un libero gioco con degli elementi. Per noi, questa dimensione è interessante perché permette uno spostamento, un pensare e un agire diversi, che lasciano accadere le cose.

Nel descrivere i vostri lavori fate spesso accenno ad una dimensione collettiva. In che modo i vostri lavori dialogano/interagiscono con la collettività?
Prendiamo il caso di Dormite sogni tranquilli ma con un occhio aperto, progetto a cui ci siamo dedicate negli ultimi mesi, concentrandoci sulla valle del Vajont, tra Veneto e Friuli Venezia Giulia. Le comunità locali, dalla metà degli anni ’50, vennero sconvolte dalla costruzione di una diga dell’altezza di 260 metri, che le segnò profondamente e per la quale vengono ricordate. Nel 1963, una grossa frana staccatasi dal monte vicino precipitò nel bacino artificiale della diga, generando un’ondata che oltrepassò la diga stessa e distrusse diversi abitati della zona, provocando moltissime vittime. Ci siamo avvicinate e mosse nella vallata, guidate dai racconti di abitanti e dall’esperienza diretta del luogo. L’incontro e la narrazione aprono e rigenerano ogni volta il contesto in cui ci troviamo, costituendone il suo tessuto invisibile. È in questa elaborazione partecipata che troviamo le possibili vie d’accesso alla relazione con dei luoghi. Ora stiamo lavorando assieme ad un coro locale alla realizzazione di una cantata, nata a seguito di un laboratorio aperto alle persone legate al “Vajont”. Un momento di incontro, volto a trovare modi per rispondere alla diga- un muro -partendo dalla propria voce.

The ballad è un’opera in sospeso, poiché in attesa dei permessi d’accesso al carcere di Santa Maria Maggiore a Venezia. Nonostante lo stato d’incertezza in cui vive questo lavoro, in che modo avete deciso di presentarlo al pubblico? E soprattutto, sapete già quali potrebbero essere gli effetti dell’ottenere tali permessi nella realizzazione finale dell’opera?
The ballad è la documentazione fotografica di un’azione che non è avvenuta. Il nostro desiderio era di camminare stando in equilibrio lungo il perimetro della barriera che separa fisicamente il carcere di Santa Maria Maggiore a Venezia dal resto della città. Tra le sue mura e la strada si mantiene uno spazio vuoto, libero e allo stesso tempo inaccessibile. L’azione è stata bloccata prima del suo completamento e si è successivamente aperta una procedura di permessi per la sua realizzazione “regolata”, che per ora è lasciata in sospeso. Per ora la forza di questa documentazione sta nel suggerire un’immagine che siamo noi a completare.

Ci sono stati degli incontri/eventi particolari che hanno segnato il vostro percorso artistico?
Venezia, la lettura del Terzo paesaggio di Gilles Clément, l’incontro con il pensiero e la pratica femminista della differenza, le amiche e gli amici, l’intorno.

Per concludere, quali sono i vostri progetti futuri?
La costruzione di una zattera e la scrittura di un libro.
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Alla richiesta di controllare le mini-biografie di presentazione Laura Lovatel e Federica Menin mi hanno risposto così:

Abbiamo sostituito le lettere dei nostri nomi con dei simboli e questi sono stati mantenuti anche per il testo della biografia laddove ci fossero le stesse lettere.

Laura Lovatel Federica Menin
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(1) Fino a che non ci vedono, in collaborazione con Ilan Zarantonello, mixed media, 2009.
(2) Senza titolo (due passi avanti uno indietro), fotografia digitale b/n, dimensioni variabili, 2010.
(3) The Ballad, fotografie digitali del tentativo di una performance, dimensioni variabili, 2011.
(4) Ein Zwei Drei!, Serie di stampe su carta, 4 per 180×80 cm, 2011.
(5) We couldn’t be anywhere else but here, Video a due canali, 7′, 2012.
(6) Immagine dal workshop:Come parlare al muro, presso la diga del Vajont, comune di Erto e Casso, 2013.

Contributo pubblicato il 24/09/2013

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