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«Archiviare per me è sia atto di sepoltura, sia promessa di futuro»

intervista a Jacopo Rinaldi

 

Jacopo Rinaldi incentra la sua attuale ricerca sull’analisi degli archivi intesi come sistemi vitali, custodi del tempo di ieri ma anche generatori di nuove prospettive. A partire da un’analisi scrupolosa dell’oggetto, sviluppa una riflessione che trascende il dato concreto per attivare una narrazione inedita, provocatoria e destabilizzante del passato in grado di incrinare ogni senso di certezza.

 

Prospettive laterali

L’artista romano Jacopo Rinaldi lavora sulla memoria, un processo di codifica e immagazzinamento, consolidamento e recupero che nella sua ricerca prende corpo grazie a materiali d’archivio di natura sempre differente. Affrontare l’ombra del vissuto altrui, seguirne le tracce per trarre una lettura critica del percorso di chi le ha lasciate dietro si sé è una prassi silente, diluita nel tempo. Rinaldi parte spesso dalla cronaca: eventi plateali fanno da sfondo alla ricostruzione di una narrazione che non guarda però alla Grande Storia. I dettagli e le storie laterali ai suoi occhi appaiono come forzieri che custodiscono briciole di informazioni capaci di svelare le più impercettibili sfumature del passato.

 

 

Una storiografia potenziale

Non è certo la ricostruzione storiografica a definire il suo approccio: Rinaldi è in grado di manipolare sapientemente la metodologia di ricerca archivistica con la sperimentazione artistica, dando luogo a immaginari inediti, instabili e fragili. L’artista ribalta il sistema di lettura, distorce la piatta narrazione degli eventi, modellandola e contraendola al fine di far emergere nuove potenziali adiacenze tra passato e contemporaneo.

 

 

Alla prima lettura il lavoro di Rinaldi sembra suggerire un paradosso: la rincorsa del vero, base innegabile da cui prende piede ogni suo nuovo percorso di ricerca, si manifesta attraverso l’ammissione della contestabilità delle fonti. Nelle sue differenti sperimentazioni l’artista infatti compie spesso una scomposizione e ricomposizione dei sistemi su cui sono basate le logiche di conservazione delle testimonianze storiche e si interroga su quali siano i criteri socio-politici che ne contraddistinguono l’operatività. Proteggere la memoria di ieri non è un atto autonomo e neutrale, scevro da qualsiasi influsso ideologico: l’archiviazione ha sempre tenuto fortemente conto delle esigenze secondo cui la storia dovesse essere osservata, rispettando indicazioni di rimozione o messa in evidenza degli elementi più funzionali agli interessi delle classi o delle culture dominanti.

Jacopo Rinaldi rimescola le carte in tavola, sfrutta il registrato per immergersi in frammenti di memoria ancora incompleti e che attendono di essere riportati alla luce dopo un periodo di oblio. È proprio dal buio della storia che riemergono i bagliori di consapevolezza. Nulla deve mai essere letto secondo una prospettiva univoca; contestare ogni presupposto di certa ragionevolezza è la sfida a cui Rinaldi ha scelto di dedicarsi.

 

 

L’intervista

 

Ho per te due parole, “Memoria” e “Archivio”. Quale descrizione daresti a questi termini?
Tendo ad associare e sovrapporre le due parole quindi provo a cavarmela con un’unica descrizione. Nei miei lavori l’archivio mi interessa in relazione ai corpi che lo abitano e lo alimentano: penso sia un luogo di memoria solo se reso vivo da chi lo occupa. Archiviare per me è allo stesso tempo un atto di sepoltura e una promessa di futuro.

 

«L’arte è la più alta forma di speranza»: lo ha detto Gerard Richter. Cosa speri di trovare in fondo agli archivi che sei solito scoperchiare nella tua ricerca artistica?
A volte non sono i documenti ma è l’archivio stesso a diventare il soggetto di studio. Mi interessa capire la sua portata, il suo funzionamento, le politiche a cui è vincolato. Spesso non guardo al contenuto di un documento ma alla relazione tra i documenti. Altre volte ho cercato negli archivi degli indizi, come i volti dei bambini in una foto di classe o le impronte digitali su una vecchia fotografia.

 

Le storie minori e/o laterali

Il repertorio variegato a cui ti riferisci viene sempre osservato attraverso uno sguardo laterale, mai convenzionale. Pensi che affrontare la storia frontalmente non sia sufficiente per comprenderne appieno la portata?

Non posso fare a meno di guardare a storie minori o laterali. A volte attraverso i dettagli posso permettermi di avanzare uno sguardo personale o di far emergere qualcosa di poco noto o dimenticato. Tentare di affrontare la storia frontalmente non è alla mia portata.

 

Futurismo triste, Jacopo RInaldi, Viaindustiae: Mahler & LeWitt Studios, 2018

 

Errore e menzogna

Nelle tue ricerche e nei tuoi lavori emerge più volte il concetto di “falso”. Che valore dai all’errore o alla menzogna che inquina la filologica ricostruzione del fatto storico? Che potenzialità osservi nelle ipotetiche distorsioni narrative che questi elementi mistificatori sono in grado di produrre?
Tendo ad attribuire molto valore alle falsificazioni, specialmente quando hanno avuto un impatto effettivo nella cronaca e nell’immaginario. Se un falso ha influenzato le scelte, le opinioni o l’immaginario di una comunità, per me è difficile non attribuirgli una qualche pretesa di realtà. In questo senso per me le falsificazioni sono delle fratture, delle storie alternative che aprono ad altre temporalità. Per questo spesso mi trovo ad alimentarle fino a crederci io stesso.

 

Prendendo come assunto che un ricordo è l’insieme di esperienze, credenze, opinioni, rappresentazione e valori, gli stessi elementi in grado di definire perfettamente un’ideologia, saresti d’accordo nel dire che il tuo è da considerarsi un lavoro politico?
Certo. Infondo, quale lavoro non lo è?

 

 

Documentazione e archiviazione

L’arte vive oggi un momento di forte fragilità critica. La storia dell’arte è sopravvissuta nel tempo soprattutto attraverso la sua teorizzazione. Senza questo spirito critico l’unica strada da seguire per tenere traccia delle ricerche di oggi è quella della documentazione e dell’archiviazione, determinando così un approccio alla memoria neutrale e non partigiano. Cosa pensi di questo fenomeno?
Ultimamente mi sono soffermato un po’ di più sulle parole utilizzate nel giudizio di un lavoro artistico. Il paradosso è che sono proprio le persone del settore quelle ad utilizzare un vocabolario più povero. Tolta la nozione di “bello” o “brutto” tutto è stato sostituito da “funziona” o “non funziona”, come fosse un problema di riparazione.
Questa assenza di una forte teorizzazione critica è stata comunque sostituita da criteri di selezione e accesso che non sono neutrali. Direi che questi criteri sono spesso legati a un “senso di attualità” che viene attribuito a un artista o alla sua pratica. Penso che il peso che davamo alla critica sia solo stato sostituito da meccanismi di tipo affermativo come ad esempio le mode o le tendenze. 
Per me anche l’archivio è un dispositivo sensibile a queste dinamiche. Per quanto possa essere scientifica, ogni forma di classificazione è soggetta a un’ideologia. Allora tendo a non fidarmi troppo degli archivi.

 

 

A portrait of probabilities, Jacopo Rinaldi, Galleria Indice, 2022

 

In copertina: Jacopo Rinaldi, Archivio Szeemann, (Ripetizione, riproduzione, ristampa), 2017.