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Tecnopessimismo, estetica underground e Ak-47

Conversazione con Francesca Cornacchini

 

A Roma, nell’artist run space del quartiere Tor Bella Monaca Spazio In Situ, lavora Francesca Cornacchini. La sua riflessione si fonda sull’interazione nel contesto odierno dell’individuo con il progresso scientifico, economico e politico, in particolar modo espresso nella sua manifestazione occidentale e capitalista. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere in studio con lei.

 

“Silver Pessimism”, video, 2018.

 

Quanto attendiamo il domani? L’essere umano si è sempre interrogato sulle sorti del proprio futuro individuale, non mancando di slanci d’altruismo contemplando i potenziali scenari che coinvolgerebbero l’intera specie che si è autolegittimata come dominatrice della terra. A seconda della prospettiva dalla quale si sbircia, il futuro è fonte di preoccupazione o speranza e la conoscenza dell’avvenire più probabile è ancora ben lontana dall’essere messa a fuoco. La mancanza di nitidezza è ormai la cifra stilistica della nostra epoca: un fosco e ipersaturtato dedalo in cui si perdono la sicurezza di se e dell’altro. Non è certo un passo indietro: la verità adesso sappiamo che non è unica, ognuno ha la propria, la propria visione del mondo, degna di essere vissuta con libertà e per la quale è giusto combattere con i propri mezzi. Il progresso è l’ingombrante attore che occupa il palcoscenico del nostro tempo, un esuberante e ipercinetico protagonista che divide il mondo tra la frenesia e lo scetticismo. In questa disarmonica dualità si trova il campo d’azione di Francesca Cornacchini (Roma,1991), artista attiva nell’artist run space Spazio In-situ, nel quartiere capitolino di Tor Bella Monaca.

 

 

Il condizionamento dovuto alle norme sociali è un tema di costante attualità che sei solita ispezionare nella tua ricerca. Per te cosa si intende oggi con il termine “categoria” e quale è la ragion d’essere dell’esigenza di etichettare tutto e tutti?

Un prete, una scrittrice, il presidente, una lesbica, una persona nata a Lione è francese, uno body builder, un chimico, un’attrice che abita al Pigneto, un raver.
Tutte queste sono banali informazioni generiche, eppure nel nostro cervello, alla sola lettura, centinaia di migliaia di sinapsi si attivano per smistare queste parole in cartelle, queste cartelle contengono una serie di altre informazioni, queste informazioni servono a spiegare e semplificare l’ambiente che ci circonda.
E’ una sorta di tecnologia esistenziale inconscia, una procedura meccanica.
Le categorie sono archivi inconsci che portano l’essere umano ad una sistematizzazione di informazioni, normalmente questo processo di smistamento e semplificazione viene anche detto stereotipizzazione.
Ed è proprio lo stereotipo la principale conseguenza negativa di questo meccanismo di sopravvivenza.
Questo, raramente corrisponde alla realtà dei fatti, e quasi mai tiene conto dell’intera sfera di accadimenti che poi andiamo a chiamare vita, questo è ciò che normalmente chiamiamo pregiudizio.
Per esempio l’opera “Devil may care”, esposta alla Galleria Unosunove per la collettiva Fou Rire curata da Angelica Gatto e Simone Zacchini, parla del pregiudizio analizzando la figura del diavolo in un monocromo rosso di quasi 2 metri di tute sportive cucite insieme.
Mi chiedo cosa sia un diavolo.

 

“Ruins of me“,<=\SPAC3 “, 2020, collettiva; installazione, spray acrilico su muro e plexiglass, Spazio In Situ, dimensioni ambientali. Installation view Giuseppe Gnozzi.

 

Violenza e fragilità sono dimensioni ossimoriche che nella tua ricerca convivono: Come si inserisce in questo la serie di elementi provenienti dalla cultura underground che sei solita utilizzare?

Sai, l’Italia è un paese molto canonico, e non credo di sollevare il velo di Maya dicendolo! 
In adolescenza fui affascinata dal pensiero critico di alcuni ambienti, di alcune persone che non facevano parte del macro organismo massa. C’era un substrato, qualcosa di nascosto che però era vivo e vorace, che faceva vedere i denti, quel qualcosa ti faceva sentire meno indifesa.
Dunque cos’è l’undergroud?
L’underground è lo spirito pionieristico controculturale, è una forma di resistenza antropologica, sociale e politica, è il luogo dove essere vivi e pensanti.
Questa purezza di pensiero si riversa concettualmente alle grandi storie d’amore della letteratura, ai poemi epici e addirittura alla religione, prendi ad esempio i martiri.
Le più grandi storie partono da un pensiero critico, controculturale, innovativo,romantico! 
Per esempio l’utilizzo che faccio dei pattern di felpe sportive.
Queste sono un simbolo, oltre che un indumento. Sono ricordi di ragazzi e ragazze con le loro armature.
Le loro individualità creavano un ritmo, il ritmo della musica della serata, questo ritmo legava l’immagine in una totalità.
Questa grafica diventa un potente mezzo pittorico per me.
Riconsiderando, appunto, “ Devil may care”, prendo in studio la pittura astratta americana degli anni ‘70, specialmente Newman con i suoi zip paintings.
Per me questi lavori diventano vere e proprie narrazioni eroiche, fortemente esistenziali.

 

“Devil May Care” 2023, Felpe in poliestere cucite, telaio, bruciature di sigaretta

 

Nella cultura raver, la musica techno, rappresenta l’ibridazione per eccellenza tra il genio umano e la macchina ma, nella tua visione artistica, che ruolo ha questo genere musicale?

Partirei dicendo che in generale la musica elettronica, poi Goatrance, Psytrance, Tekno, Techno e così dicendo, sono generi musicali che tendono suscitare un “deep state of mind”, grazie proprio ad alcune frequenze specifiche che risuonano col nostro corpo, che è una cassa armonica, tuttosommato.
Senza calcolare che alcuni generi, come la Psy, sono fortemente indicati per l’ascolto nella natura, proprio grazie ad alcune sonorità e vocals che generano una forte risposta cerebrale.
Pensa a video Youtube come “The DEEPEST Healing Sleep | 3.2Hz Delta Brain Waves | REM Sleep Music – Binaural Beats”, è lo stesso principio per ogni genere che ascoltiamo, diciamo dunque che alcuni sono più mirati!
Oltre questo per me è la perfetta ibridazione tecnologica, mi porta alla mente Giger, il suo immaginario al di là del tempo.
Svincolandomi dalla convenzione dell’incedere del tempo lineare, abbracciando invece la sua virtualità che genera il caos e la casualità del succedere, interagendo con essa sovrapponendo simboli, frammenti di storia, disegni di possibili futuri, micro deliri distopici insomma, è con questo spirito che tento di dare risposte a assillanti domande esistenziali.

 

Azione performativa e produzione materiale sono linee che segui abitualmente nella tua ricerca: con quale criterio selezioni il medium giusto per portare a termine un lavoro?

Per il mio lavoro ho delineato un piccolo modus operandi.
La chiamo regola del “70\30”! In sostanza prendo un 70% da un ambiente, un’immagine, una storia, un tempo, un mood e la mescolo con un 30% di un’altro.
E’ una semplificazione di processi mentali, di collegamenti di periodi storici, connessioni logiche per arrivare a quei risultati fantascientifici che mi aiutano a comprendere l’andamento delle cose, o almeno, queste connessioni attraverso il tempo, mi danno strumenti interpretativi per comprendere questo “Sick Sad World” citando Daria, roba da MTV!
Prendi ad esempio opere come “Giunone Caprotina” o “Vestale”.
Nel primo lavoro, per esempio, paragono il culto pagano della Dea Giunone, le feste a lei dedicate alla frenesia subculturale del rave, assimilando il copricapo originario della Dea al classico cappello con visiera tipico della scena underground.
Oppure in “S4n S3b4 Ch4llang3” scelgo di performare un nuovo martirio mettendo in relazione la body performance degli anni 60 e 70 con le youtube challange.
In quel caso mi tatuavo il costato nelle pose classiche del martire.
Il mio corpo era indispensabile per la sovrascrizione di immagini e significati.
Tutto è funzionale al contenuto e alla potenza comunicativa ed evocativa finale.

 

“And if I could, No end in sight”, 2023, Galleria Unosunove, documentazione performance Chiara Cor.

 

Nella tua ricerca emerge il lato oscuro della rivoluzione tecnologica e digitale che è protagonista del nostro tempo. Come ti immagini il domani?

Ti riferisci al Technopessimismo!
E’ un concetto fortemente politico, sotto certi aspetti. Nulla è progresso se non è volto al miglioramento scientifico e sociale. Il progresso tecnologico non può essere schiavo del capitalismo, ciò porta alla nostra involuzione.
Immagina il piacere che hai quando vedi in foto l’insegna del McDonald’s in fiamme, un peluche di Pikachu venuto terribilmente male, o un carro armato abbandonato da decenni nel mezzo di una giungla primordiale.
Mi viene in mente un mio lavoro del 2018 “Silver Pessimism”, dove incendiavo delle sneakers Nike Silver.
Queste immagini suscitano uno strano uncanny moment, piacevole a tratti, sono distopie tecnologiche, spesso legate ai brand o icone del mercato globale.
Sappiamo perfettamente che qualcosa non va nella nostra economia, nel nostro “progresso”, il fatto che spesso si pensa di non avere alternativa a queste dinamiche socio-economiche ci porta a provare piacere nel vedere la distruzione dei simboli del mercato, i simboli del potere.
Technopessimismo è una visione critica che parte da un’estetica, come i luoghi liminali che spesso ospitano queste piccole distopie del mondo del capitale e della finanza globale.
Credo che siamo al termine di un’era, quella del Homo Sapiens.
Potremmo ritrovarci nell’era del Techno Sapiens, adesso?
Lo spero tanto, spero in una nuova coscienza tecnologica globale che riesca a proliferare grazie allo sviluppo delle nuove AI, uno sviluppo democratico volto, appunto, al vero progresso sociale, non quello dell’arricchimento di quell’1% della popolazione.

 

“Giunone Caprotina”, “IUNO COMMISSION”, 2022, personale; cappello, corna di capra, tape, plexiglass, staffe metalliche, bulloni. Curata da Ilaria Gianni e Cecilia Canziani, installation view Chiara Cor.

 

Non è possibile non notare nel tuo lavoro una forte spinta romantica, uno “slancio eroico”. L’arte ha anche una funzione salvifica secondo il tuo punto di vista e se non questo, che ruolo ha oggi?

Il salvifico è un concetto molto cristiano che non condivido molto!
Salvarsi da cosa, da chi?
Per me romanticismo ed eroismo, come ti dicevo, sono le due facce della medaglia del pensiero critico, sono elementi di potere, sono puri, sono idee, non ideali!
Ad oggi l’arte, ricopre per me un’importante mezzo di cultura, è una specie di ak-47 della resistenza.
Dobbiamo fare cultura, parlare di cultura e divulgarla. 
Proprio con questi intenti ho fondato il progetto di residenza “D3cam3ron3”, dove invito presso il mio casale nella campagna umbra, 10 persone di cultura, artisti curatori e filosofi, a convivere per 10 giorni, svincolati da ogni obbligo di produzione, un piccolo paradiso fertile dove confrontarsi e stringere legami di stima reciproca.

 

Progetti futuri: cosa hai in programma per la seconda parte del 2023?

Ad Ottobre si terrà, appunto, la seconda edizione di D3cam3ron3, sempre in collaborazione con Palazzo Lucarini Contemporary di Trevi, ex Flashart Museum.
Sempre ad Ottobre parteciperò alla Biennale di Gubbio curata da Spazio Taverna.
Inoltre sono già in produzione per la personale che avrò a Gennaio per la Galleria Divario di Filippo Tranquilli.
Gennaio 2024 vale come seconda metà del 2023?
Se il tempo è virtuale, perchè no!

 

In copertina: “I was an Angel”, felpa in poliestere. bruciature di sigaretta, telaio, Galleria Alessandra Bonomo; foto credits Chiara Cor.