Art

Cartoline dalla Biennale 2013
a cura di Balloon Project Editing Staff

Lo scorso 29 Maggio si è inaugurata la Biennale di Venezia – Arti Visive – edizione 2013.
Abbiamo chiesto – nonostante la nostra partecipazione all’apertura – ad artisti, curatori, storici dell’arte ecc presenti alla vernice di spedirci idealmente delle “cartoline” da Venezia.
Una raccolta di pareri e punti di vista sulla Biennale, curata dal giovanissimo Massimiliano Gioni, firmata da Eva Brioschi; Andrea Bruciati; Annalisa Cattani; Lorenzo Canova; Daniele Capra; Fabio De Meo, Stefania Fabrizi; Loredana Longo; Saul Marcadent; Rosa Anna Musumeci; Beatrice Susa, Francesco Urbano Ragazzi.

Questa edizione della Biennale mi ha suscitato scarse sensazioni e molte riflessioni.
Bellissima l’idea di aprire con il libro rosso di Jung e di dare spazio al “non visibile” e a forme di spiritualità non per forza religiosa; ma non credo si possa trasformare una Biennale in una mostra strutturata come un archivio continuo.
Il fatto che un terzo degli artisti in mostra sia morto mi sembra dica tutto rispetto a quanta fiducia il curatore riponga nel futuro (dell’arte, soprattutto).
Se l’arte è ormai una pratica democratica diffusa e si manifesta attraverso una manifattura folkloristica o reperti di interesse antropologico più che estetico, allora io personalmente mi dedicherò ad altro. Ma non credo sia così. E per fortuna il video di Yuri Ancarani, e il video di Sharon Hayes in mostra all’Arsenale mi garantiscono in qualche modo che un’altra via è possibile e che quella di Gioni è una visione del tutto soggettiva, fortemente curatoriale, anche molto ben organizzata, ma di cui, credo, storicamente non resterà molto.
Eva Brioschi – Curatore e Art Advisor.

Un libro non è una mostra e una mostra non è una Biennale, tantomeno a Venezia. La proposta di Massimiliano Gioni è un display seducente, museograficamente impeccabile e rigoroso nei sussidi didascalici: affascinanti molte delle opere proposte e scelte, degne di un museo antropologico e rispondenti al sogno di Auriti. Le ossessioni che ama fanno parte anche del mio background culturale e delle mie scelte curatoriali e, pertanto, non posso che plaudire all’impiego di tanti stimoli visivi del XX secolo e del profluvio di carte e di oggetti feticcio, dall’incontestabile charme. Il palazzo enciclopedico lo intendo quasi come un tributo ad un grande studioso come Hans Belting che, nello sguardo penetrante della psiche, intravede una veridicità ultima, dove reale e bello si uniscono, finalmente. Eppure? Nulla di underground, off, tossico, virale, radicale, qualcosa di lontanamente ‘rischioso’ in questa rassegna. Nonostante l’operazione inequivocabilmente seduttoria di Gioni, siamo dinanzi ad una Biennale reazionaria, che mi ricorda lo Jean Clair del 1995. Mancanza di coraggio verso proposte veramente innovative, che aprano a ipotesi, tracce, persino ponti costruttivi per il domani. Si assiste per l’ennesima volta ad un ripiegamento sul passato che non è ne di tipo enciclopedico, ne catalogatorio: un viaggio onirico verso le pulsioni dell’essere umano e la sua irrazionalità o presunta tale.
Andrea Bruciati – Curatore.

Sono andata alla Biennale di Venezia come artista e come inviata di Radio Città del Capo e undo.net. Alla conferenza stampa mi ha colpito una risposta che ha dato Gioni ad una mia domanda in cui si prendeva in seria considerazione la figura dell’artista-curatore, come creatore di scenari complessi ricchi di confronti ad ampio raggio e non solo come protagonista di un monologo interiore che si esterna tramite un prodotto. In secondo luogo mi affascina la portata di questa scelta di porre in dialogo artisti e pratiche “high and low”, evidenziando a mio parere come la creazione del valore emerga non dall’oggetto o dalle singole teorie, ma dal dibattito intellettuale. Questa Biennale ricca di lavori molto interessanti e articolati mette in discussione il termine “ricerca”, parola spesso abusata, edulcorata e travisata come semplice esercizio di concettualizzazione, quando in realtà si tratta di un percorso complesso in cui le opere sono oggetti dialettici che catalizzano visioni e percezioni e veri e propri “stili di vita alternativi” che solo in un processo interlocutorio possono essere fruiti, goduti e dibattuti. Ultimo, ma non in ordine di importanza l’apertura magico emotiva che riconsegna all’arte la funzione di una grammatica dei sensi e non solo dei significati.
Annalisa Cattani – Artista e Curatrice.

Trovo questa Biennale di Venezia più interessante delle ultime che l’hanno preceduta. Da storico dell’arte, l’impostazione di Gioni mi ha ricordato (con le ovvie differenze) alcuni elementi fondanti di due vecchie biennali di Venezia, quelle curate da Maurizio Calvesi nel 1986 e da Jean Clair nel 1995, soprattutto nell’attenzione per un certo collezionismo ‘enciclopedico’ da camera delle meraviglie e per Jung, Steiner e l’esoterismo: nel 1986, infatti, erano presenti le sezioni ‘Wunderkammer’ curata da Adalgisa Lugli e ‘Arte e alchimia’ curata da Arturo Schwarz. Anche la generale matrice ‘antropologica’ che sembra sostenere l’impianto concettuale di questa Biennale non è così lontana da quella di Jean Clair di ‘Identità e alterità’ del 1995. Ho apprezzato il nuovo allestimento dell’Arsenale, la presenza di molti linguaggi scelti senza preconcetti e di figure riscoperte, spesso addirittura sconosciute, anche se non tutte di altissimo livello, che dimostrano come il curatore abbia affrontato la mostra con uno sguardo aperto e con coraggio, creando una polifonia a suo modo coerente nelle difformità, che funziona forse più come mosaico che nei singoli artisti. Tra i padiglioni stranieri, legati in prevalenza al remix di elementi di un certo stile ‘tardomoderno’ con inserti tecnologici, peraltro con molti spunti di qualità, ho apprezzato molto quello cinese, per me il più innovativo e forse non a caso abbastanza sottovalutato, con la l’ironica critica delle foto di Wang Qingsong, la suggestiva e apocalittica animazione ‘Mist’ di Zhang Xiaotao e le opere colte di Miao Xiaochun, che mescolano grafica in 3D, animazione e pittura, una strada dove la tecnologia, la storia dell’arte e la creatività si uniscono per tracciare una strada possibile dei linguaggi del futuro.
Lorenzo Canova – Storico dell’Arte, Curatore e Critico d’Arte.

Quella di Massimiliano Gioni è stata una delle biennali più intense che io abbia mai vissuto, non sembrava una biennale: non mi ha fatto perdere la strada o messo in quella salutare condizione di crisi, forse perché la vita stessa è già troppo in crisi e l’arte ritorna ad essere quella strada che ci riporta verso la casa, verso quella casa che ci rassicura sempre? Mettere al centro dell’attenzione l’uomo e la sua sfera mentale, occulta, religiosa è stata però un’operazione che ho molto sentito, la necessità di uno sguardo verso l’interno e questo bisogno commovente dell’uomo, in certi periodi storici cruciali, di pensare alle cose piccole, minute, ritornando a quel fare manuale e meditativo che può essere l’unica formula in grado di aiutarci a capire quello che siamo e quello che non siamo.
Fabio De Meo – Artista.

È una mostra pulita, corretta e con rigore museale quella realizzata da Massimiliano Gioni. Il Palazzo Enciclopedico è infatti un enorme display congegnato per fornire uno sguardo – essenzialmente di natura tassonomica – verso tutto ciò che abbiamo alle spalle: ad essere analizzate sono alcune delle categorie emerse nei primi cinquant’anni del Novecento, mentre sembra essere stata in qualche modo passata/archiviata la sbornia postmoderna e l’ansia di scoprire nuovi mondi e ulteriori possibili platee dell’umanità.
Gli obbiettivi della mostra sono stati perseguiti musealizzando (rendendo cioè white cubes) ed ordinando a seconda delle necessità gli spazi fortemente caratterizzati dell’Arsenale, che mai come in questo caso sono esclusivamente contenitori di cui non curarsi. Ecco perché nella mostra aleggia un’aria fredda, forse compassata e certamente didascalica: Gioni per essere analitico aveva bisogno di pulire i pur meravigliosi eccessi di quello spazio, con l’inevitabile effetto sala operatoria.
Inutile dire che in questo approccio c’è forse un po’ di amore per l’arte necrofilo, rivolto ai cadaveri su cui si è plasmata la storia dell’arte, però tutto funziona perfettamente e risulta difficile obbiettare sulle scelte artistiche del curatore. Banalmente sono questi i fantasmi e le ossessioni che hanno bussato alla sua porta. I miei, sono differenti, ma è un fatto di gusti e di avversione/propensione al rischio. Di questo forse mi dispiaccio, della mancanza di scelte talvolta sbagliate votate ad anticipare il futuro, più pericolose, sporche, madide di sudore. Ma foriere di lampi accecanti, ansie ed orgasmi imprevedibili.
Daniele Capra – Curatore.


Una Biennale bagnata ma per questo forse più affascinante, da guardare con gli occhi della mente.
Gioni è riuscito infatti con rigore e toni non urlati a creare un’atmosfera vagamente esoterica e a tratti di alta spiritualità.
Ho seguito il percorso con curiosità e rispetto per i singolari artisti “illuminati” sulla via di Damasco. Una sottile energia misteriosa emanata dalle opere ispirate mi ha guidato fino ai punti per me più alti come la sala di Rudolf Steiner e il libro rosso di Carl Gustav Jung il quale diceva “non dobbiamo pretendere di conoscere il mondo solo con l’intelligenza, sarebbe invece necessario insegnare all’uomo l’arte di vedere”.
Una Babele ben riuscita, bravo Gioni!
Stefania Fabrizi – Artista.

Biennale 2013: uno sguardo storico e analitico sull’ultimo secolo di storia dell’arte, esaminato da punti di vista trasversali, che possono talvolta sembrare quasi didattici e un po’ datati, analitici nel senso di studio della psiche, per me un po’ noiosi, per altri interessanti. Ho trovato denso di una grandeur, che era inesistente nelle scorse edizioni, il Padiglione Italia agli Arsenali curato da Bartolomeo Pietromarchi, gli artisti spaziano dal campo della performance alla grande installazione. Una sorte di “Grande Riscatto” alle ultime due edizioni. Agli Arsenali spicca su tutte l’installazione di Alfredo Jarr, con la sua vasca contenente l’acqua putrida di Venezia dalla quale affiora per poi sparire “l’isola dei Giardini” che contiene la Biennale con i suoi Padiglioni, lettura critica del superato modello “Biennale”.
Ammirazione per la struttura ramificata antropomorfica di Berlinde De Bruyckere, si rivela raffinata e scenografica come sempre. Il Padiglione più interessante è e rimane per me Israele, un racconto grottesco documentato da alcuni video che puoi guardare contemporaneamente e seguire le fil rouge che li lega in pochi secondi, senza spazientirti come spesso accade difronte a centinaia di proiezioni (fenomeno inspiegabile pur sapendo che il tempo di visione di ogni spettatore è limitato). In giro per Venezia obbligatoria la visita a Palazzo Grassi con l’immensa opera di Rudolf Stingel, che ha tapezzato l’intero spazio con la gigantografia su moquette di un tappeto sul quale spiccano con discrezione piccoli dipinti grigi. Da vedere.
Loredana Longo – Artista.

C’è chi ne ha scritto a caldo, chi non l’ha vista e ne ha parlato, chi ha cambiato idea parecchie volte, chi ha intavolato lunghe discussioni, al riparo dalla pioggia, lungo le Corderie dell’Arsenale o nei Padiglioni.
La Biennale Arte è un grande palcoscenico e Massimiliano Gioni direttore d’orchestra, per me, se l’è cavata. Ha seguito una linea precisa, nata tra le pagine di Charley e frutto di collaborazioni prestigiose, accanto a un team di lavoro rodato. Di certo è una mostra molto ordinata – dalla scrittura delle didascalie alla scrittura nello spazio – a volte troppo, ma le opere e i progetti abitano le stanze meravigliosamente, in armonia tra loro. Penso, in particolare, ad alcuni ambienti: quello circolare con R. Crumb e Shinichi Sawada o la seconda stanza del Padiglione Centrale, con le sculture protette di Walter Pichler, le lavagne di Rudolf Steiner e il repertorio di gesti di Tino Sehgal.
Tra le opere più belle, e sento di doverle scrivere altrimenti si parla sempre del progetto curatoriale: i video di Jos De Gruyter e Harald Thys, Camille Henrot, Yuri Ancarani, le tele di Lynette Yiadom-Boakye e Maria Lassnig, l’installazione di Peter Fishli e David Weiss.
Saul Marcadent – Curatore.

La biennale: rigorosa e multiforme, come vuole il titolo di Gioni. Il rigore è metodologico, il Palazzo Enciclopedico aspira a contenere tutto e coerentemente assembla genenerazione su generazione, tecnica su tecnica, scuola su scuola, tendenze e cesure, consacrati ed eretici, a cominciare da quell’Auriti (Chi era Costui?…direbbe Manzoni), che solo un ricercatore accanito poteva tirare fuori dalla polvere; ma, partita da qui, la ricerca si dipana irresistibilmente, componendo uno scibile visivo che scavalca le tematiche (care ad altre edizioni, e troppo spesso noiosamente o pletoricamente ripetitive) e ne dimostra l’accessorietà rispetto alla riuscita visiva.
Non che le idee (e anche le ideologie) manchino, of course, e la più dominante è certo l’associazione di arte e natura, nelle versioni più disparate possibili, mimetica, sinergica, antagonistica…ma facendo posto a tutte, il Palazzo Enciclopedico chiama a giudicare il concerto; ed è la prima volta che lo si sente tanto alto e chiaro da ridurre a brusio irrilevante le usuali polemiche sugli strumenti degli orchestrali. Tantovero che anche i padiglioni ne hanno risentito, internazionalizzandosi, o spingendosi sul terreno del “glocalismo”, come non era mai avvenuto. E tipicamente glocale è anche il panorama dell’Off: vedi You(you) di Lee Kit, che dalla Cina porta una visione del quotidiano, della memoria e degli oggetti riproducibile e riconoscibile, un mix di estraneità familiare; oppure, i giovanissimi del Crepaccio, ovviamente se stessi e ovviamente a proprio agio con (qualsiasi) altro o altrove…il vero Zeitgeist della cultura visiva contemporanea.
Rosa Anna Musumeci – Gallerista, ARTECONTEMPORANEA bruxelles.

Biennale di Gioni? Migliore di quella di due anni fa, con opere più sorprendenti e interessanti. Da veneziana vivo con piacere i fermenti del pre opening, in quei giorni si respira la tensione, il fermento e l’energia che pulsa in tutta la città. Ci tengo a sottolineare anche la molteplicità degli eventi collaterali che in molti casi consentono di accedere in palazzi e corti stupende, altrimenti nascosti al di là di una porta o di un muro, vivacizzando la città oltre ai più noti spazi dell’Arsenale e dei Giardini.
Tutto il fervore però si esaurisce in soli 4 giorni di vernici e preview che richiamano star internazionali, personaggi televisivi, artisti e artistar… ma perché non creare più presentazioni durante i sei mesi di apertura? Sarebbe interessante dar vita alla “settimana della Russia”, alla “settimana della Cina” e così via al fine di far parlare dell’arte contemporanea a Venezia per tutto il periodo dell’esposizione.
Beatrice Susa – Co-fondatrice Premio Arte Laguna.

Ho avuto da subito una strana resistenza all’immagine grafica di questa 55ima Biennale d’arte di Venezia. Per qualche motivo non mi sembrava per nulla adatta ad un tipo di manifestazione come la Biennale, o quanto meno alla mia idea di Biennale. Solo ora, qualche giorno dopo l’inaugurazione, ho capito perché.
La testa estrapolata dalle lavagne di Rudolf Steiner, icona scelta per il Palazzo Enciclopedico, mi aveva inizialmente fatto pensare a qualcosa di farmacologico/farmaceutico. Poi improvvisamente ho avuto un’illuminazione: mi sono ricordato di Mente & Cervello, la rivista di neuroscienze e psicologia tra le cui pagine trovo spesso spunti per le mie ricerche. Sono riuscito anche a recuperare la copertina di un numero del 2011 che ha reso giustizia a questa mia sovrapposizione.


Mente & Cervello è un rivista curiosa, ricca di informazioni e input di vario genere, che pure afferiscono ad un campo specifico. Mi intriga la sua scientificità mescolata ad una vena divulgativa. Ogni tanto mi convinco che sia la mia rivista, ma ciclicamente mi trovo a tradirla, a stancarmene, per poi rivalutarla di nuovo e ancora perderla. Ciò che me ne fa prendere le distanze è sempre, ad un certo punto, quella tendenza a leggere i fenomeni in chiave patologica. Come se lo schema e la malattia avessero il sopravvento su tutto. Non che non sia attratto dall’irrazionale, ma all’ossessivo e all’autistico preferisco il delirio rigoglioso del ciclotimico e dello schizofrenico.
Quando riprendo a leggere la rivista, mi dico che in fondo questo è solo il modo naturale con cui tratta la malattia chi si occupa dello studio e della cura.
Una deformazione professionale che può essere di ispirazione, ma a cui prima o poi ho bisogno di sfuggire.
Francesco Urbano Ragazzi – Duo Curatoriale.

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