Art

Carta bianca a Gibellina.
Un progetto di Annamaria Craparotta

di Salvatore Davì

 

Questo articolo non intende soffermarsi sulle politiche di ricostruzione di Gibellina che ormai hanno alle spalle decenni di critiche e di consensi ma vuole lanciare uno sguardo verso chi quella ricostruzione l’ha vissuta.
Il caso di Gibellina rispecchia lo stato di potere che contraddistingue il rapporto tra istituzione e comunità ma appropriarsi della paternità di un documento, di un evento o di un fatto non significa porre la propria autorità sull’accaduto; serve dunque una revisione del senso della parola testimonianza. Perché rielaborare un concetto di testimonianza prendendo spunto dalle storie che animano Gibellina? Ogni progetto di ricostruzione, istituzionalizzandosi, porta con sé la premessa della rielaborazione della storia in senso unitario; questo implica il ridimensionamento o l’omissione dei valori affettivi di ogni soggettività coinvolta e delle plurime storie che in ultima istanza dovrebbero avere pari autorità di testimonianza. Ribaltare l’idea di una comunità passiva o addomesticabile attraverso atti pubblici significa dar spazio alla profondità dei processi della vita degli individui che ne stanno dentro.
Il progetto Carta bianca – Laboratorio del racconto multimediale chiama in causa dispositivi relazionali che oltrepassano il giudizio sulla ricostruzione della nuova Gibellina e pone una riflessione sul potere di detenzione della memoria e sulle dinamiche di inclusione ed esclusione che ne derivano; l’attività svolta dà voce alle quotidianità e alle memorie individuali sommerse.

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SD – Carta bianca – Laboratorio del racconto multimediale è il primo step di un progetto più ampio, Attraver/stare – Laboratori trasmediali – Spazio Corpo Narrazioni, che prevede attraverso quattro percorsi laboratoriali da realizzare con gli abitanti di Gibellina, Montevago, Salaparuta, Santa Margherita Belice, la produzione di opere collettive relative alla memoria e al presente delle quattro città interamente distrutte dall’evento sismico del 1968. Le procedure e le metodologie del primo laboratorio, messo in atto nell’autunno del 2011, a Gibellina Nuova, hanno richiesto un elevato livello di fiducia e di tensione costruttiva fra chi ha deciso di farne parte; questo progetto si può considerare come l’inizio della costruzione di un archivio affettivo della gente di Gibellina? Spiegaci i nodi fondamentali del laboratorio dalle fasi preliminari al risultato finale.

AC – Vorrei iniziare raccontando da dove parte il progetto, e cioè in occasione della mia tesi di laurea presso L’accademia di Belle Arti di Brera, all’interno del dipartimento di Nuove Tecnologie dell’arte, indirizzo in Arti multimediali interattive performative.
La ricerca teorica che sta alla base del progetto di laboratorio multimediale, realizzato nell’autunno del 2011, tenta di restituire una lettura inedita del caso Gibellina Nuova, elaborando un percorso teorico che analizza il periodo che va dalla data del sisma fino all’esaurirsi dell’operazione culturale e artistica degli anni ’80: l’obiettivo di questa ricerca è quello di operare una “sospensione del giudizio” rispetto al risultato della ricostruzione, rompendo lo specchio della dicotomia bello/brutto, positivo/negativo, per arrivare a descrivere, attraverso un ragionamento condotto in modo il più possibile scientifico, il dispositivo complesso entro il quale corpo e relazioni si articolano nella città nuova.
Il percorso propone quindi un tentativo: analizzare il caso Gibellina Nuova senza esprimere un giudizio di valore rispetto alla ricostruzione e all’operazione culturale, confrontando invece il caso con una metodologia di analisi trasversale strutturata attorno ai concetti di sapere, potere e soggettività, al fine di far emergere le relazioni esistenti tra le forze connaturate alla nuova formazione storica (la fondazione e la costruzione della città nuova) e i segni dell’operazione culturale promossa negli anni Ottanta a Gibellina.
L’analisi teorica è costruita attraverso riferimenti alle teorie elaborate da pensatori come Foucault, Deleuze, Agamben, dei quali si assumono gli strumenti analitici e alcuni concetti fondamentali per elaborare un’interpretazione originale del caso.
Dopo l’evento sismico avvenuto nella Valle del Belìce nel 1968, a Gibellina per un lungo periodo si poté osservare la giustapposizione contemporanea di tre città: la gente dormiva nella città nuova in costruzione, lavorava nei villaggi di baracche e manteneva ricordi e identità nel vecchio paese distrutto.
E’ un contesto eterotopico, complesso e mutevole quello in cui inizia la costruzione della nuova città, dove il rapporto del corpo con lo spazio si dis-pone in modo radicalmente differente rispetto alla vecchia città, dove le abitazioni erano le une addossate alle altre: fra gli agglomerati di case a due piani, costruite su pendi ripidi e con materiali modesti, si intratteneva una prossemica opposta rispetto alla città nuova, dove la grande estensione planimetrica degli abitati, la scelta di configurazioni abitative originate dal disegno della viabilità ma controllate da griglie geometriche rigide e definite caratterizzano il nuovo rapporto del corpo con lo spazio costruito.
All’interno di questo contesto complesso e mutevole si colloca il tentativo di descrivere e articolare il muto racconto del trauma, attraverso il coinvolgimento di molti artisti del panorama nazionale e internazionale; spazio e narrazione sono le coordinate entro le quali la città nuova è stata costruita: lo stato, che ne ha disposto il disegno, l’architettura e la conseguente relazione del corpo degli abitanti con il nuovo spazio; la fabula dell’utopia, quella della ricostruzione attraverso l’arte e la cultura, una narrazione che potesse ricucire gli spazi e l’identità della città.
E’ Platone, con il mito di Atlantide, attraverso la forma letteraria del romanzo utopico, ad anticipare l’utopia come città ideale; ed è proprio la dolcezza delle utopie, come la chiama Foucault, a rendere immaginabile una narrazione, una inscrizione degli eventi nei discorsi possibili, collocandosi nel solco del linguaggio, nella dimensione fondamentale della fabula.
La forma narrativa della fabula è proprio quella che permette le condizioni di sussistenza di un discorso, rendendo possibile la relazione tra le parole e le cose, mettendo in ordine logico e cronologico la successione degli elementi della storia e disponendoli in base ai loro rapporti di causa-effetto: Gibellina come utopia concreta, che della forma narrativa della fabula si è servita per riconciliare la faglia aperta tra le parole e le cose.
Sapere, potere, soggettività sono quindi gli elementi di una rete di relazioni (il dispositivo) che è stata tessuta per connettere spazio e identità, prevalentemente attraverso il teatro, gli interventi artistici negli spazi pubblici e gli eventi culturali, relazioni entro il quale si è costituito il soggetto che ha abitato il nuovo contesto.
Il dispositivo è quindi la rete che si stabilisce tra questi fattori: la ricostruzione voluta dallo stato, gli interventi artistici sparsi per la città di Gibellina, la stagione del teatro delle Orestiadi e gli eventi immersivi a cui la città partecipava hanno depositato segni e simboli, sia nelle stratificazioni della città, sia nella memoria degli abitanti, modificando definitivamente un paesaggio culturale preesistente ed istituendone uno nuovo.
Si può quindi parlare di Gibellina Nuova come un complesso dispositivo segnico, un archivio materiale e immateriale frutto delle dinamiche di potere e sapere interne al periodo storico preso in esame.
Il laboratorio condotto nel quartiere popolare di Gibellina Nuova nell’autunno del 2011 si inspira a ciò che Foucault chiama la “ricerca sul campo”, che ha come fine quello di individuare linee di fuga attraverso cui la soggettività si reinventa all’interno del dispositivo: una metodologia per sciogliere il groviglio delle linee di un dispositivo, per cartografare, misurare terre sconosciute: l’analisi teorica intende quindi produrre un modello di ricerca che, in questo caso, tenti di restituire una lettura degli spazi dei segni e delle zone di silenzio presenti nella città nuova, al fine di individuare spazi di relazione possibili.
Ho quindi individuato nel quartiere popolare della città nuova uno spazio significativo da indagare: un quartiere di case popolari, lotti assegnati a sorteggio per opera del Comune durante la ricostruzione della città nuova.
Le case costruite nelle vie del quartiere sono un esempio radicale e controverso dell’applicazione del modello delle citta-giardino: le abitazioni hanno un doppio accesso, da un lato si può accedere alle case attraverso le strade pedonali, dall’altro attraverso le strade carrabili.
Data la scala della città, gli accessi alle abitazioni che si affacciano sulle strade carrabili, al contrario rispetto quanto previsto dai progettisti, risultano utilizzati in modo più frequente, sia dagli abitanti che utilizzano spesso l’auto anche per piccoli spostamenti all’interno del paese, sia da chi viene a visitare la città, con il risultato di offrire allo sguardo ciò che dovrebbe essere il retro dell’abitazione.
Anche le ondate di emigrazione della città hanno cambiato il modo di vivere gli spazi del quartiere popolare, che in passato erano il luogo preferito dai piccoli per il gioco e della relazione, del passare il tempo insieme per i più grandi.
Lo spazio delle relazioni, con il passare degli anni e con il diminuire della popolazione, si è ritirato, ripiegato verso l’interno delle case, lasciando vuote le strade.
Queste architetture, questi spazi, per quanto contraddittori, sono un segno forte sul territorio che raccontano le alterne vicende della ricostruzione post-terremoto: all’interno di questo contesto, ho proposto un laboratorio di dieci incontri che ha coinvolto alcuni abitanti del quartiere, sperimentando insieme a loro la realizzazione di un racconto multimediale, costituito da un percorso di installazioni narrative in situ.
Alla realizzazione e alla produzione del laboratorio hanno partecipato altri sette artisti: Alessandro Lo Cascio, la Compagnia Quartiatri e Mapi Rizzo.
Il laboratorio è stato proposto a partecipanti di tutte l’età purchè abitanti nel quartiere interessato; dopo una promozione del laboratorio all’interno del quartiere lunga due mesi, e dopo aver ricevuto molti “no”, quattro abitanti del quartiere hanno aderito al laboratorio, insieme alle loro famiglie: Gioacchino, 75 anni; Santa, 59 anni; Valentina, 29 anni; Giacomo, 65 anni.
A loro è stata data carta bianca nel raccontare le proprie esperienze e il proprio vissuto in relazione ad alcune tematiche principali da loro scelte: le storie personali, il terremoto e la ricostruzione, Ludovico Corrao, la situazione attuale della città.
Lo strumento principalmente utilizzato è quello della video intervista, che ci ha permesso pian piano di entrare in relazione con i partecipanti e di comporre insieme quattro racconti audiovisivi; una volta elaborati i racconti, ai partecipanti è stato proposto di esporsi in prima persona, condividendo i propri racconti con i loro concittadini in occasione di una performance pubblica finale, realizzata allestendo alcune postazioni multimediali negli spazi compresi tra la strada e l’ingresso delle loro abitazioni.
Gli spazi scelti per mettere in scena la performance sono particolarmente significativi, perchè lì si intrecciano pubblico e privato, elementi inestricabilmente legati nella storia di Gibellina Nuova.
Le soglie tra gli ingressi delle case e le strade carrabili sono quindi diventati gli ambienti nei quali allestire le postazioni per la fruizione dei racconti insieme ai partecipanti e al pubblico: queste soglie che separano l’ambiente domestico dall’esterno, lo spazio privato da quello pubblico e costituiscono una zona intermedia, dove set e ambienti per i racconti sono stati creati con gli oggetti presenti nelle case stesse, mettendo in discussione la dinamica di relazione presente tra l’interno e l’esterno delle abitazioni.
Il laboratorio ha tentato di articolare, attraverso gli incontri laboratoriali e l’esperienza performativa finale, una narrazione che riunisca parole e cose: ai partecipanti è stata data completa libertà nel raccontarci, senza pregiudizi, della loro esperienza rispetto alla ricostruzione, all’operazione culturale, alla situazione attuale della città; il lavoro laboratoriale si incentra quindi su luoghi-limite, spazi di intersezione tra potere, sapere e soggetto, usufruendo delle condizioni esistenti, senza aggiungere elementi esterni rispetto al contesto, valorizzando invece quelli già presenti e collocandoli all’interno di una possibilità, di una dinamica narrativa nuova, e cioè la performance multimediale allestita nell’ambito di quegli spazi.
Dalla videodocumentazione prodotta durante il laboratorio è stato tratto il video documentario Carta Bianca. Storie di Gibellina Nuova, che racconta le tappe principali di questo percorso fatto insieme ai partecipanti.

SD – per concludere darei voce ai gibellinesi (Giacomo, Gioacchino e Santa) che hanno condiviso le loro memorie con te e con gli altri artisti coinvolti. Le loro storie costruiscono una testimonianza eterogenea parallela a quella ufficiale e istituzionale; lasciando intatta questa eterogeneità ti proporrei di pubblicare all’interno di quest’articolo degli stralci estratti dal video-documento prodotto. Sei d’accordo?

AC – Sono loro il sale del progetto.
Questo laboratorio è un inizio, un primo passo per la formazione di un archivio affettivo attraverso il quale rivelare storie e riattivare processi narrativi all’interno di una zona di silenzio, apparentemente chiusa allo scambio con l’esterno, per aprire e restituire queste zone silenziose alla Storia e alla condivisione delle storie che possono raccontarci, raccontando attraverso un racconto riflesso, che va al di là dei singoli contributi, portando alla luce una porzione di storia che non ha mai avuto modo di affermarsi, al fine di creare una possibilità di relazione, re-inserendo il corpo all’interno di una storia e di una narrazione collettiva.

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«Gioacchino – …ascoltavo alla radio di questa scossa di terremoto e dicevano Salaparuta, Gibellina, Montevago…

Santa – Mio marito mi disse: tu mi vuoi come marito?
io gli dissi di sì e ci fidanzammo.
poi però successe un finimondo perché era previsto che andassimo ad abitare a Marsala…e invece mio marito a Marsala non ci voleva stare…gli dissi: ci penso io, dico a mio padre che non hai i soldi e non puoi fare una casa..mio padre rispose: che problema c’è? la casa te la faccio io. Gli dissi: papà, non spendere altri soldi, io me ne vado. E andai a stare nelle baracche…all’inizio contenta, perché sembrava bella quella baracca, tutta sistemata, con i mobili, le tende, mi piaceva! mi sembrava quasi un giocattolo!
Poi invece quando mi sono sposata e sono tornata dal viaggio di nozze…non era così la storia…volevo andarmene!

Giacomo – Qua era soltanto terreno, qua non c’era niente, dalle strade alle fognature…tutto quello che ci vuole in un paese si è fatto nuovo.
Quando sono venuto ad abitare nelle case popolari qui non c’era niente, era un cantiere proprio…proprio di fronte casa mia, sulla strada questa qua dove c’è l’ufficio postale non c’era niente, solo l’ufficio postale, che era un prefabbricato che l’hanno fatto all’inizio…hanno piazzato quest’ufficio postale. E non c’era niente.

Giacomo – immensi spazi e sovrumani silenzi.
A certi orari qua…si sente proprio il clamore del silenzio, il frastuono, il fracasso del silenzio!
Quando ci fu l’assegnazione delle persone aventi diritto per le case popolari…era un lotto di novantadue case, appartamentini, villette a schiera…tutti abbiamo fatto la domanda, quelli aventi diritto alla casa con il contributo dello stato, abbiamo fatto tutti la domanda… e io, per pura fortuna, sono stato il novantaduesimo di questa assegnazione per sorteggio…ad avere diritto!

Gioacchino – il paese vecchio era fatto in montagna…non c’erano tante cose interessanti a parte le chiese principali che erano molto belle.

Giacomo – Si sono cominciati a fare qua tutti questi monumenti, sculture per le strade, venivano artisti e lavoravano qua al museo, le hanno fatto direttamente qua alcune opere.
E noi ci chiedevamo: ma questi pupi? noi non abbiamo bisogno di pupi!

Santa – Gibellina è morta. E con la campagna che è morta, è morta pure Gibellina. Se sbaglio ditemelo…

Giacomo – secondo me è la mancanza di giovani…la mancanza di attività soprattutto!
Di tutto si è fatto meno tutte quelle grandi cose che si dovevano fare.
Già da quando eravamo nelle baracche tutti lo dicevano: Gibellina, Salaparuta, Poggioreale… saranno destinati ad essere paesi dormitorio!
Io ho un articolo del 16 o 18 gennaio dove un giornalista dice che le popolazioni del belice si troveranno davanti un muro….un muro davanti, invalicabile… e questo muro si chiama burocrazia»

[Estratti dal video-documento Carta bianca, courtesy Annamaria Craparotta]

Crediti laboratorio:
Ideazione e coordinamento: Annamaria Craparotta
Assistente al coordinamento: Alessandro Lo Cascio
Produzione: Annamaria Craparotta
in collaborazione con Compagnia Quartiatri
Videodocumentazione: Mapi Rizzo, Alessandro Lo Cascio
Promozione: Belìce/Epicentro della Memoria Viva e Cresm – Centro Ricerche Economiche e Sociali per il Meridione

Crediti documentario:
Titolo: Carta Bianca. Storie di Gibellina Nuova
con: Giacomo Tortorici, Santa Mangogna, Gioacchino Manfrè

Durata: 21 min
Da un’idea di: Annamaria Craparotta
Regia: Annamaria Craparotta, Alessandro Lo Cascio, Mapi Rizzo
Produzione: Annamaria Craparotta, Alessandro Lo Cascio, Mapi Rizzo
in collaborazione con Compagnia Quartiatri
Riprese e suono in presa diretta: Mapi Rizzo, Alessandro Lo Cascio
Montaggio: Mapi Rizzo, Alessandro Lo Cascio, Annamaria Craparotta
Musiche: Banda alle Ciance
Sound Design: Mario Bajardi
Promozione: Belìce/Epicentro della Memoria Viva e Cresm – Centro Ricerche Economiche e Sociali per il Meridione.

(a) Le abitazioni del quartiere popolare a Gibellina Nuova, luogo di indagine del laboratorio Carta Bianca.
(b) Gioacchino racconta del terremoto durante la performance allestita negli spazi del quartiere popolare.
(c) Intervista a Santa, una dei partecipanti al laboratorio.
(d) Giacomo, uno dei partecipanti al laboratorio, presso il Sistema delle Piazze.

 

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