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Unearthed/Dissotterrato

una calma solo apparente

 

Sull’isola della Giudecca a Venezia è stata da poco inaugurata Unearthed/Dissotterrato, mostra collettiva orchestrata dalla curatrice portoghese Maria de Brito Matias (Lisbona, 1996), ospitata nel suggestivo ex-convento dei Santi Cosma e Damiano, più precisamente all’interno della quattrocentesca Sala del Camino della Fondazione Bevilacqua La Masa. Sono state presentate le ricerche di cinque artistǝ che hanno partecipato alla terza edizione del programma residenziale In-Edita, svoltosi presso la Fondazione Forte Marghera con il sostegno di tre gallerie con sede a Venezia: Mariana Battistello Gallery, Galerie Alberta Pane e IKONA Venezia.

 

 

Una residenza lagunare

Il sottotitolo dell’esposizione to find or discover (something) that was hidden or lost. To unearth a secret, lascia intravedere, senza troppo svelare, i messaggi sottesi alle undici opere concepite di Iside Calcagnile, Daniela D’Amore, Gabriele Longega, Morgane Porcheron e Simone Scardino. Le periferie lagunari sono state fonte di ispirazione e sfondo per il lavoro di ricerca degli artistǝ che si sono spontaneamente orientati verso temi quali il rapporto tra l’uomo e la natura, l’abbandono degli spazi verdi e la decadenza/rigenerazione urbana diffusa. Il tema cardine della mostra è quello, pluralmente declinabile, della sostenibilità ambientale che, calata nel peculiare contesto veneziano, ha anche lo scopo di spezzare il disincanto attraverso l’impiego di diversi media e punti di vista critici. La mostra si presenta quindi sotto forma di un canto corale che, con l’ausilio delle singole voci, vuole rendere manifeste le diverse risposte che il precario equilibrio ambientale può suscitare.

 

Natura viva

Le prime opere che colpiscono lo sguardo del fruitore sono quelle dell’artista francese Morgane Porcheron (Lione, 1990) dai titoli puntuali e fortemente evocativi, in grado di catturare la nostra attenzione per la varietà di forme e colori, nonché di materiali utilizzati per fissare tracce di vegetazione urbana lagunare (Vegetazione umida spontanea, Reperti fossili in griglia, Gradiente di movimento del liquido, Ricordo di Forte Marghera e Frammenti di alberi fantasma). Porcheron nella sua pratica assume il ruolo di archeologa del post-umano e con strumenti quali il silicone, le polaroid e i calchi in gesso sceglie di documentare e preservare per i posteri, fossili urbani in via di estinzione e stralci di resilienza umana e vegetale. Ispirato dagli scritti e dalle riflessioni di Yona Friedman, Gilles Clément e Emanuele Coccia, il suo lavoro indaga l’impatto della natura sulle costruzioni umane e con meticolosità scientifica documenta le imprevedibili mutazioni della flora e della fauna che caratterizzano il nostro tempo.

 

 

L’orto fantasma

Avanzando nello spazio ci imbattiamo in Bravi solo sulla carta, di Simone Scardino (Venaria Reale, 1995) una distesa di settantasei fogli di cellulosa e semi, adagiati al suolo seguendo il ritmo delle fasi lunari. Questi manifesti, solo in apparenza silenti, ci parlano della controversa storia dell’Orto Botanico di Venezia, inaugurato nel 1811 e chiuso al pubblico nel 1887, per l’appunto, soltanto settantasei anni dopo. L’artista, dopo aver scandagliato i differenti materiali custoditi nell’Archivio di Stato, decide di portare in superficie la memoria occultata dell’ex Orto Botanico di San Giobbe, nato per nobili scopi come lo studio della botanica e il decoro pubblico, a più riprese bistrattato e trasformato persino in silurificio da una società berlinese. Scardino con estrema delicatezza cerca di ricucire i brandelli di una memoria cittadina che è vittima di una reiterata incuria sociale, politica e burocratica. Attualmente il giardino fantasma, verte in uno stato di totale abbandono, sfruttato come discarica abusiva, tanto da diventare luogo di svago prediletto delle pantegane. Il trenta novembre, al termine dell’esposizione, i semi delle piante spontanee raccolte dall’artista (Torpedo seeds) verranno fisicamente spediti in settantasei Orti Botanici sparsi per l’Europa insieme a una lettera che racconta l’iter del progetto, nella speranza che dalla memoria storica di un luogo pressoché dimenticato possa rinascere nuova e fertile consapevolezza.

 

 

Trappole capitalistiche

Poco dopo scopriamo una creatura dalle fattezze aliene letteralmente pietrificata dai fumi tossici del capitalismo, accovacciata su un tavolo anatomico di dissezione, circondata da trappole melmose. Siamo entrati nel laboratorio esoterico di Gabriele Longega (Venezia, 1986), artista che inizia la sua ricerca dall’investigazione del Manifesto “Contro la nocività” del 1971 firmato da Potere Operaio e dal Comitato Politico degli Operai di Porto Marghera, esponendo poi sotto teca, insieme a dei fittizi reperti post-apocalittici,  alcuni inquietanti rivelazioni: “Giorno per giorno moriamo per produrre […] La crescita economica infinita è necessaria per mantenere e creare i posti di lavoro a prescindere dalle ricadute ambientali”. Longega con Perché non ci rubino anche il sole allestisce uno scenario catastrofico estremamente verosimile e toccando delle ferite ancora aperte vuole fare emergere un passato fin troppo tossico per restare nell’ombra. Il capitalismo genera mostri, una produzione industriale sempre più smodata che risponde agli interessi del solo dio Denaro non ha alcuna attenzione e tutela delle vite umane e vegetali: potrebbe addirittura portarci via il sole. Oggi paghiamo a caro prezzo le scelte fatte per assecondare una produzione irrefrenabilmente malata e il nostro impatto sul pianeta ha delle conseguenze indelebili per l’eternità.

 

 

Un gioco di riflessi

Un elemento dichiaratamente verticale, simile a una scala, si riflette su una videoinstallazione in cui si alternano immagini della laguna, una natura riflessa in cui noi a nostra volta possiamo o meno rispecchiarci, si tratta dell’opera Balance di Daniela D’Amore (Caserta, 1989). Ci scopriamo nell’altro oppure attraverso l’immagine che gli altri hanno di noi? Quest’opera ci parla delle infinite possibilità di definizione del sé attraverso il rapporto con i nostri simili e la natura circostante, per ricordarci che in fondo siamo, proprio come le piante, costantemente soggetti al cambiamento fisiologico, cognitivo e spirituale. La nostra natura varia al variare dei contesti con cui ci scontriamo o ci confrontiamo e l’acqua, che contraddistingue tutto il territorio Veneto, è forse l’elemento che meglio simboleggia il costante e a tratti repentino, cambiamento di forma che attraversiamo. Al variare della luce, si moltiplicano i possibili riflessi della natura nella natura e di un curioso oggetto, ricavato dall’assemblaggio di vari objet trouvé, che ci invita ad abbandonare momentaneamente il livello terrestre per ascendere a quello delle idee, dove creare nuove possibili mappe per orientarci nel mondo.

Mentre in NOT YET (I, II, III, IV, V) l’artista ci mostra il suo personale manuale di metoscopia, metodo che contempla la possibilità di prevedere la personalità, il carattere e il destino di un soggetto in base allo schema delle linee della sua fronte. D’Amore modella in modi differenti policrome sculture totemiche in ceramica partendo da alcune rappresentazioni presenti nel Trattato di Gerolamo Cardano, medico e astrologo rinascimentale, che identifica la fronte come luogo più certo per un’indagine fisiognomica, avanzando inoltre l’ipotesi di potere decodificare l’andamento degli astri a partire dalle linee che la solcano.

 

Daniele D’Amore, Balance 0.1, 2023

 

Daniela D’Amore, NOT YET (I,II,III,IV,V), 2023

Una danza silenziosa

Infine Iside Calcagnile (Bologna, 1993), con l’opera About fingers ci proietta in un piccolo teatro naturale, costringendoci ad abbassare un po’ il nostro punto di vista per diventare spettatori privilegiati della silenziosa ed elegante danza di affusolate dita ramificate. Calcagnile attua un’indagine formale della natura, approfondendone le dinamiche più recondite e meno ovvie, si interessa degli alberi e dei loro discorsi più segreti. Gli alberi infatti non comunicano solo con le radici, ma con ogni loro terminazione nervosa e con le loro ombre. Le piante distribuiscono le funzioni vitali su tutto il corpo e ci invitano ad abbandonare il centro, e a essere molteplici, in virtù di una vitalità ed espressività diffusa, insita in ognuno di noi. L’ultima opera presente in mostra, La voce, dunque, in cerca delle dita, ci costringe invece ad alzare lo sguardo per ammirare uno stendardo che non comprendiamo pienamente dal momento che si tratta di una scrittura, ancora da decifrare, che si compone di mimiche vegetali.