Il tramonto dalle vette di Maria Tindara Azzaro
La mostra Con il sole al tramonto di Maria Tindara Azzaro esplora il legame tra spazio, materia e percezione. Attraverso installazioni in tessuto che richiamano paesaggi interiori, l’artista trasforma l’ambiente espositivo in un luogo sensibile e meditativo, dove luce e forma invitano lo spettatore a una riflessione intima sull’abitare.
Gli spazi e la loro configurazione sono veicoli di relazioni sociali. Non solo in quanto meri scenari degli incontri tra gli esseri umani, ma in veste di “manipolatori” delle interazioni tra le persone – in base a come sarà creato uno spazio e saranno disposti gli arredi e ogni tipo di oggetto funzionale in esso, il tipo di movimento al suo interno (e quindi di interazione tra chi lo vive) cambierà sensibilmente: negli anni ’70, Bill Hillier sviluppò una teoria approfondita della sintassi dello spazio, in cui esamina l’interconnessione tra le forme dello spazio e i soggetti che lo occupano, lo popolano, lo attraversano. Gli spazi e gli individui umani però non sono gli unici ad avere una correlazione: il loro stesso rapporto è dato in larga parte dal fortissimo legame che si instaura tra lo spazio e gli oggetti che ospita.
Una vivida rappresentazione di questo legame si può rintracciare nella mostra “Con il sole al tramonto”, personale dell’artista Maria Tindara Azzaro presso lo spazio espositivo La Siringe (Palermo), conclusasi recentemente. In Azzaro, la materia plasmata dall’artista “modella” lo spazio alterandolo, andando a riconfigurare la propria interpretazione della realtà così come ci è data – laddove appare statico, il reale è al contrario un processo dinamico e armonico, pur nelle sue contraddizioni e nei bruschi cambi di rotta: alla stessa maniera lo è il paesaggio.
Entrando nello spazio della mostra, la percezione è quella di poter “vedere” col tatto quella porzione di reale: una serie di forme realizzate intrecciando il tessuto abbraccia i muri seguendone il perimetro – figure che ricordano delle formazioni geologiche, a richiamare un paesaggio verde simile a un rifugio in cui “accucciarsi” al centro, risemantizzando lo spazio che le accoglie quasi “sfidandolo”, ed espandendone le pareti col loro moto ondulatorio, vivo, accentuato dalla trama intrecciata del tessuto. Queste “montagne” costituiscono così uno spazio dentro lo spazio, un confine poroso, una soglia su cui fermarsi o oltre il quale proseguire, un invito a toccarlo, a farsi avanti e al contempo a retrocedere, ma anche un chiedere allo spettatore di fermarsi, non per limitarlo ma per permettergli di ammirarne gli interstizi.
Così, come scrive il curatore Carlo Corona nel testo che accompagna la mostra, “la materia diventa orizzonte interiore o, forse, una topografia sensibile, una memoria in attesa di affiorare”. Questa trasformazione da orizzonte fisico a interiore si concretizza nello studio sulla luce che traspare dall’installazione: la luce e le ombre si insinuano tra gli spiragli della trama plasmando il tessuto e rendendo l’opera quasi un dipinto tridimensionale, accentuandone le linee morbide e le sfumature. Nonostante circondino le mura dello spazio espositivo, la sensazione provata nel farsi abbracciare dai “monti” in tessuto respinge qualsiasi senso di costrizione o di ingabbiamento – al contrario, essi suscitano un desiderio di andare oltre ciò che si può vedere superficialmente, di “visualizzare” scenari sempre diversi.
È come una condizione meditativa e di calma profonda quella che suscita l’opera di Azzaro, simile alla trasposizione visuale di un haiku, un invito ad “abbracciare” il limite e a pacificarsi con esso.