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Intervista a Rosario Catrimi,

il volto di Toulemonde

 

Rosario Catrimi, in arte Toulemonde, classe 1980, vive e lavora a Roma; dopo essersi formato a Londra e aver insegnato in diverse accademie italiane per la Moda. Abbiamo avuto il piacere di conversare con lui sul suo debutto e le sue ultime creazioni. Proviene dalla Scultura, laureatosi all’Accademia di Belle Arti, lavora quasi immediatamente nell’abbigliamento come ghost designer per alcuni brand del mondo sartoriale. Nella sua personale visione veste l’uomo di contemporaneità, un globe trotter moderno; i suoi pattern sono costruzioni geometriche da sportswear tecnico, senza tuttavia rinunciare all’allure e al luxury dei profumi e della natura lussureggiante del Mediterraneo.

 

Chi è Rosario Catrimi? Come sei passato dall’arte alla moda? (sempre che tu ne concepisca una transizione o al contrario nessuna differenza)

Cominciamo con una domanda impegnativa. Non ho molta fiducia in chi è capace di auto definirsi così facilmente. Posso dirti facilmente che sono un curioso, m’incuriosisce tutto quello che ci circonda. Non credo che il mio processo creativo possa prescindere dall’arte, per quanto la moda non sia assolutamente Arte – risponde a delle domande completamente diverse – ma può diventare arte nella scelta del racconto che decidi di intraprendere e spesso si carica di messaggi e significati molto più articolati e profondi di quel che possiamo immaginare.

 

Quali sono i tuoi principali riferimenti in ambito artistico? Dalla pittura al cinema alla letteratura…

Ho una grandissima passione per l’architettura da sempre, e per la scultura, materia in cui mi sono laureato, per altro. Il movimento Bauhaus e Le Corbusier sono sicuramente tra i miei riferimenti iniziali. Tuttavia, mi piace sporcare la pulizia derivante dalla Bauhaus con contaminazioni di natura completamente opposta, come la New wave anni ’80, altra grandissima fonte d’ispirazione, o la musica francese anni ‘60 o, ancora, il cinema della Nouvelle Vague.

 

Raccontaci di Oleander, la tua collezione di debutto, ibrida, forse un po’ borderline, ma non meno intrigante, in quanto si basa sull’incontro-scontro tra le bellezze naturali del Mediterraneo e gli innesti geometrici che hai ripescato da certa arte suprematista russa.

Oleander è stato un “gioco”, un’esigenza estetica nata da anni di riflessione più che formale, concettuale. Arriva dal mio carattere e, in parte, dalla mia storia personale. Gli oleandri sono dei fiori speciali che, come dico sempre, “si salvano da soli”. Sono fiori che nascono ovunque spontaneamente e senza l’aiuto di nessuno. Credo che Oleander faccia parte della mia visione dell’essere umano. La mediterraneità è qualcosa da cui non posso prescindere: esiste nel mio DNA in quanto isolano. Ancora di più, perché non arrivo da una parte della Sicilia in cui trionfa il Barocco spesso associato nell’immaginario collettivo tout court alla nostra isola. Messina, la mia città natale, è stata deturpata delle sue bellezze architettoniche dal terremoto del 1908. La sua posizione mozzafiato regala albe e tramonti e giochi di luce sullo specchio del mare che difficilmente ti abbandonano, una volta entrati nel tuo DNA. Poi, tutta questa poesia improvvisamente si scontra con la mia parte più dura, più razionale e da qui nascono questi giochi di innesti con il suprematismo russo.

 

Proponi una collezione pret-à-porter da chic backpacker o da preparato wanderluster, in un momento in cui siamo stati interdetti nei nostri spostamenti come hai visto la tua collezione?

Ammetto di aver accusato moltissimo la chiusura. Perché sono una persona che, per lavoro specialmente, è costantemente in movimento. E quando mi sono messo a pensare alla SS/21 eravamo nel pieno della chiusura e non sapevamo a cosa, né dove ci avrebbe portato.

Ho quindi pensato alla mia collezione come a qualcosa che potesse trasformare la chiusura in un gioco, il gioco delle rockstar chiuse in camere d’albergo che viaggiano attraverso la loro musica anziché attraverso il loro corpo, con una palette color piuttosto spenta e malinconica.

Poi il lockdown è passato e la collezione ha preso una piega completamente diversa e l’uomo si è trasformato in quello che tu descrivi come chic backpacker, ma i miei colori mediterranei hanno ripreso immediatamente il predominio come si vedrà negli scatti della SS21.

 

Arriviamo a Petrichor, ultima tua creazione. Leggiamo che continui ad ispirarti alla bellezza che ti circonda, ma in questo caso l’uomo che proponi è flâneur, che si lascia coinvolgere e trasportare dalle emozioni senza vergogna; da cosa sei partito e come hai tradotto in tessuti il tuo pensiero?

Sono partito dalla situazione sociale dell’uomo contemporaneo. Gli ultimi fatti di cronaca sottolineano, ancora, come sia un problema il machismo: l’uomo storicamente è un prevaricatore, l’uomo sulla donna, l’umanità sulla natura, il più forte sul più debole. Sono, tuttavia, fermamente convinto che i motivi alla base di tutta questa prevaricazione siano per lo più culturali.

Fino agli anni ‘80 il “maschio rimane ingabbiato dentro questa montatura per cui deve esser un “master and commander” un guerriero e un cane da guardia. È solo dagli anni Novanta in poi che la figura del “maschio” comincia ad assumere toni più “morbidi”. Dobbiamo fare ancora moltissima strada. Ciò nonostante Petrichor è un suggerimento ad abbracciare la parte più tenera di sé, e infatti ho scelto due icone della poesia moderna Emily Dickinson e Cristina Campo, apparentemente molto lontane tra loro, ma accomunate dall’anti-egocentricità.

Tradurre in tessuti questo pensiero è stato semplice. La morbidezza del cashmere e della vigogna mi hanno aiutato a trasmettere lo spleen di cui nessuno dovrebbe vergognarsi.

Essere Macho a tutti i costi, abbracciare il Patriarcato, è qualcosa che la cultura, la comunicazione e anche la moda hanno il dovere di aiutare ad abbandonare.

 

Dici del tuo brand Toulemonde “Les structure nes des scendand dans la Rue”, [L. Goldmann, “le strutture non scendono in piazza”] diventato poi anche il tuo mantra, quanto potere ha, a parer tuo, la moda in questi tempi di moti e agitazioni sociali,– oggi come negli anni’60 il periodo a cui tu guardi maggiormente – di forti cambiamenti culturali e modalità di fruizione che anche questo settore ha subito e al quale ha dovuto adattarsi?

La moda ha e avrà sempre un potere molto forte, più forte dell’arte, più forte del cinema.  Innanzitutto, perché è per i giovani un mezzo velocissimo di comunicare se stessi sin dall’adolescenza, e in qualche modo  anche da adulti ci lega sempre all’aspetto più reazionario di noi stessi. In secondo luogo, perché è una comunicazione che non devi cercare, t’investe: dalle vetrine dei negozi ai cartelloni per strada, alle pagine dei giornali… È un messaggio che ti raggiunge, che s’insinua. E tutto questo avviene negli anni ‘60, quando le controculture diventano loro malgrado manifesti di mode e modi. Indossare una minigonna negli anni ‘60 era un atto politico più che una moda.

Nel contemporaneo la moda ha completamente cambiato la sua fruizione. Ma non tanto per l’avvento dei social network, perché i social hanno solo cambiato il medium ma non il tipo di fruizione. Anche se ammetto che, post-Covid, vedo questa potenza scemare, perché se mancano i momenti di aggregazione mancheranno inevitabilmente i modi per condividere i linguaggi più alti della moda.

Il cambiamento più radicale è stato sicuramente dettato dal genderless che finalmente è una realtà assoluta e ancora di più dalla fast-fashion che ha permesso a tutti di avere un aspetto più simile possibile al proprio ideale. Con risvolti catastrofici sull’ambiente e sulle economie, chiaramente, ma molto interessanti nel sociale.

La rivoluzione TOTALE avverrà quando capiremo che è tempo di Editing e non più di smodato consumo, e quando la fast-fashion abbasserà la produzione, e secondo me siamo sulla buona strada.

 

Quanto senti di essere cambiato/cresciuto da una collezione all’altra? È cambiato qualcosa nel tuo processo creativo?

Non credo. Perché sono arrivato all’idea di un marchio dopo anni di lavoro e di apprendimento, non voglio dire da “adulto” ma certamente con una visione chiara e con un bagaglio di esperienze rilevante. La crescita da una collezione all’altra dipende per lo più, dagli investimenti economici che vi sono alla base. Più soldi hai, più cose belle puoi produrre. Sempre poche, sempre in maniera sostenibile.

 

Dove hai trovato la bellezza in questi mesi?

La bellezza non esiste, è un sentimento e, soprattutto, non si cerca, ti trova lei quando e come decide lei di farsi trovare. Ci ho provato a cercarla, ma ci sono momenti della vita personale o momenti storici in cui non la trovi neanche guardando la Cappella Sistina; altri, in cui la trovi guardando un sasso.

 

Come scegli i tuoi materiali?

Con grande cura e rispetto e nel modo più semplice possibile, tanto per cominciare per una questione etica ed estetica non uso materiali sintetici per cui automaticamente la scelta si restringe ai classici estivi o invernali.