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Intervista a Roberto Pinto

 

Chi è Roberto Pinto?

Domanda a cui è un po’ difficile rispondere. (Ride e s’indica, sic).  Dire chi sono e cosa faccio non è facile. Sono un ricercatore di Storia dell’arte contemporanea all’Università di Trento; ho fatto per molto tempo il curatore anche se, in questo momento, non so più se definirmi tale perché negli ultimi anni ho curato poche mostre. Ho quasi smesso di fare il curatore sia per ragioni personali che per aspetti più generali, che potremmo definire “teorici”. Mi sembra che, soprattutto in Italia (ma il discorso potrebbe essere anche esteso), si facciano troppe mostre senza un pensiero, una riflessione, un’esigenza significativa. Parallelamente, credo che, in Italia, sia stata, spesso, trascurata l’indagine sul significato complesso del “sistema mostre” e sul significato stesso dell’arte. In altre parole, quello che viene chiesto al curatore, nella maggior parte dei casi, è di conoscere artisti giovani o, comunque, artisti che non siano ancora all’interno del sistema espositivo e del mercato, per inserirli all’interno di questo sistema. Ci viene chiesto di fare da talent scout. Mi sembra che ci si ponga raramente questioni come: “che cosa stiamo facendo?”; “come mai l’arte si sia trasformata?”; “a chi serva?; “che ruolo socio-politico ricopra?”; ecc. Ed è per questo motivo che, personalmente, ritengo, in questo momento, più utile fare ricerca e fare confluire le nostre indagini in testi specialistici di settore piuttosto che organizzare l’ennesima mostra di artisti emergenti.

 

Da quanto tempo fai il curatore e qual è stato il tuo iter formativo e lavorativo? 

Ho fatto storia dell’arte all’Università La Sapienza, a Roma e a metà del corso di specializzazione post lauream, incentrato sull’arte medioevale e moderna, ho risposto a un annuncio di Flash Art. Ho lasciato a metà la specializzazione per lavorare nella rivista milanese perché volevo lavorare nel contemporaneo. Ho lavorato per Flash Art, dapprima, come collaboratore interno, poi, come redattore, come caporedattore e, infine, come credo sia fisiologico, sono scappato e ho cominciato a fare il curatore. Ho fatto il curatore per dieci anni, grosso modo dal 1995 al 2005. Ho fatto il curatore indipendente, con tanto di partiva iva, poi ho cominciato a insegnare, prima in accademia e, in seguito, in università. Sono sette anni oramai che lavoro in Università, finora a Trento e dal prossimo anno a Bologna. E in questo periodo ho rallentato i tempi della mia attività curatoriale. In questo modo, ho potuto riprendere il discorso legato allo studio e alla ricerca e questo, forse, mi consentirà di svolgere, entrambe le professioni con più coscienza.

 

Cosa deve fare un curatore nel momento in cui organizza una mostra? Quando curi una mostra da cosa parti? Come scegli gli artisti, il tema? Insomma, qual è il tuo metodo di lavoro?

Innanzitutto, sapere che  il “meccanismo mostra” è un meccanismo molto complesso. Come ti accennavo, credere che il compito di un curatore si limiti a scoprire artisti giovani e bravi è riduttivo. Secondo me, in Italia, ci sono molte persone che svolgono tale ruolo e lo fanno benissimo anche le gallerie. Quest’ultime trovano sempre nuova “merce” e questa è in qualche modo la loro caratteristica. Credo che il curatore debba svolgere un lavoro intellettuale, debba essere un mediatore in grado di occuparsi di aspetti che vanno oltre la commercializzazione dell’artista e la mostra in sé.

Bisogna, inoltre, essere coscienti che oltre a una mercificazione degli oggetti artistici è in atto una accentuata mercificazione delle mostre stesse. Tale fenomeno va a radicarsi in un territorio in cui non ci sono molte istituzioni solide, sebbene adesso rispetto a dieci/quindici anni fa ce ne siamo molte di più. Faccio un esempio banale ma che forse rende l’idea: nel 2010, al Centre Pompidou di Parigi più di mille persone erano impiegate (non tutti, ovviamente, con un contratto full time), mentre non credo si arrivi a mille persone nell’intero territorio italiano impiegate dalle istituzione culturali legate all’arte contemporanea. Con ciò voglio dire, al di là della questione numerica, che al Centre Pompidou di Parigi si può decidere di fare degli approfondimenti e delle ricerche prima di organizzare una mostra, si ha quindi il tempo, oltre che i mezzi per farla.  Mentre mi sembra che, in generale, e in Italia in particolare, nel fare il curatore si sia un po’ schiacciati da un sistema che ti costringe a fare almeno dieci mostre nel tempo in cui sarebbe logico prepararne soltanto una. Tornando alla tua domanda quando curo una mostra cerco di prestare molta attenzione alle relazioni che si instaurano con il luogo non solo in senso architettonico ma anche in senso socio-culturale. Cerco, quindi, di partire dai dati concreti, reali, anche se non è sempre facile fare dei discorsi generali che vadano bene per ogni mostra. Se si lavora per un’istituzione, per una galleria privata o, per esempio, in uno spazio pubblico le logiche potrebbero essere molto differenti tra di loro. In generale, cerco sempre di capire le esigenze, le motivazioni, interne ed esterne alla mostra stessa. Provo a fare degli esempi. Quando Martin mi ha chiesto di fare una mostra al PAC sull’arte italiana degli ultimi dieci/quindici anni, mi sono dapprima interrogato sulla storia del PAC, poi, su quella di Milano, oltre, ovviamente, a cercare di riflettere sugli artisti che sono stati protagonisti degli ultimi anni.

 

Parli spesso dell’Italia in relazione all’estero. Sulla base delle tue esperienze lavorative, quali sono le differenze in merito al sistema dell’arte, al lavoro e alla ricerca in questo ambito?

La differenza credo la facciano gli investimenti elargiti a favore della ricerca e, quindi,  a favore della qualità del lavoro. In Italia, il sistema si basa tutto sulla quantità e sulla superficialità di ricezione del meccanismo d’esposizione. Non ci sono delle serie riflessioni sulle mostre, raramente, si leggono delle critiche che vadano al di là di una superficiale presa di posizione o si discute seriamente sulle posizioni artistiche. Questo è uno dei motivi principali perché i giovani non credono più nel sistema italiano e vanno a Londra o a Berlino.

È vero che  la globalizzazione ha fatto il suo corso – per cui non ci sono più  situazioni così differenti tra un luogo e un altro – ma, in alcuni paesi esteri, il sistema di potere (se vogliamo chiamarlo così) è più frazionato, più complesso, quindi più critico. Ho l’impressione che, nella stragrande maggioranza dei casi, sia che tu faccia la mostra più interessante del decennio o la più ovvia e scontata delle proposte la ricezione, sostanzialmente, non cambi di molto. Non mi sembra che alla direzione dei nostri musei ci siano sempre dei curatori che hanno costruito mostre particolarmente interessanti. La maggior parte si limita ad essere informato sulle ultime tendenze. In altre parole, in molti centri stranieri ti puoi occupare di arte contemporanea stando dentro un’università, un’istituzione pubblica, un’istituzione privata, lavorando con le gallerie, con le case d’asta ecc. In Italia, diciamo che la parte istituzionale è più fragile, per cui diventa tutto più complicato. Se sei un’artista italiano devi fare riferimento esclusivamente alle gallerie private, per cui i tuoi progetti, i tuoi lavori devono essere vendibili e, di conseguenza, hai tempi di ricerca e di realizzazione molto ristretti. All’estero, per esempio, c’è anche la possibilità di lavorare con borse di studio o su progetti specifici finanziati da istituzioni. Le istituzioni esistono e partecipano alla formazione e alla cultura collettiva. Banalmente, credo che la complessità sia meglio della monocultura perché offre più opportunità di pensare e, quindi, di produrre pensieri nuovi al di là dell’oggetto artistico in sé. La dimostrazione della mancanza di ossigeno alla ricerca nel sistema italiano la riscontriamo anche nel fatto che nella maggior parte delle esposizioni internazionali siamo poco presenti. Certamente, le nazioni più forti economicamente condizionano il sistema e il mercato, vanno alla ricerca della diversità più radicale per cui è paradossalmente più facile avere a disposizione occasioni espositive se sei un artista sudamericano, piuttosto che, italiano, spagnolo, o greco… Il fatto che non ci siano artisti italiani diventa, quindi, segno della globalizzazione, ma anche dell’assenza delle istituzioni che porta a concludere le tue ricerche in tempi brevi e con dei contenuti superficiali. Questo è uno dei motivi per cui, come ti dicevo all’inizio, ho abbandonato quasi del tutto la professione curatoriale e sto cercando di scrivere e di impegnarmi di più sul fronte della ricerca e dell’insegnamento. Vedi, la maggior parte delle mostre che ho fatto ritengo che fossero delle belle mostre, alcune ho la pretesa che siano state delle mostre magari piccole ma importanti. Se, però, vado a rileggere i miei testi alcuni sono veramente poco chiari e superficiali perché non ho avuto tempo di fare le ricerche specifiche, in un certo senso di interiorizzare i problemi e di lavorare con i tempi del pensiero non con quelli del mercato o della pubblica amministrazione. Dovevo risolvere i problemi pratici (primo fra tutti, quello di reperire i soldi) e poi, solo nei ritagli di tempo, contribuire con delle riflessioni scritte al percorso espositivo.

 

Questa tua esperienza non ti fa riflettere su come la figura del curatore venga vista da fuori? 

Sì, ovviamente. Mi ritengo, infatti, un privilegiato per aver avuto, in quest’ultimi anni, la possibilità di lavorare all’interno dell’università. E’ vero che questo ruolo implica anche un carico gestionale e didattico, ma è anche vero che uno dei miei compiti è fare ricerca, quindi, studiare e scrivere.

 

Le caratteristiche che, secondo te, sono indispensabili per fare questo lavoro?

Quelle che sono indispensabili, o quelle che mi piacerebbe lo fossero, in un mondo ideale?

In un mondo ideale, bisognerebbe avere una grande conoscenza delle ultime tendenze, ma anche una grande coscienza storica e sociale. L’arte è un’espressione di singoli individui ma anche di una società che costruisce attraverso questi singoli individui una complessità. Tale considerazione vale per qualsiasi altro periodo storico, ma ora credo che acquisti anche altre valenze perché  gli artisti sono più liberi e non hanno legami/vincoli con committenti, possono esprimersi in modo critico sulla società che li circonda e persino sull’arte. Dunque, direi che al primo posto tra le caratteristiche indispensabili per fare questo lavoro debba esserci una grande conoscenza storica, ma anche una conoscenza costruita attraverso la frequentazione: se si frequentano gli artisti si capiscono molte più cose sulle loro opere. Non dico una frequentazione da cocktail o da opening ma una frequentazione più intima, da studio. Andare nei loro studi per vedere come lavorano; sentire come loro spiegano le loro opere per cui riscoprire alcuni aspetti del loro lavoro che, a uno sguardo più superficiale, ci sono apparsi marginali ma che non lo sono affatto e che, anzi, dopo il confronto con l’artista diventano sostanziali. Bisogna però andare al di là dell’informazione, essere più coscienti dell’evoluzione dell’arte moderna e contemporanea, anche solo per capirne le radici, il linguaggio, i riferimenti. Nel mondo reale, direi che oltre a questi elementi, che a volte – purtroppo – diventano secondari occorre avere la capacità d’intessere pubbliche relazioni. Se sei uno che conosce tutti (soprattutto nella politica) è più facile che tu riesca a realizzare i tuoi progetti anche se sono molto deboli dal punto di vista dell’elaborazione intellettuale.

 

Questa è la tua esperienza?

In parte sì, nel senso che più sei presente più vieni chiamato.

Se vuoi vivere del mestiere di curatore è un po’ inevitabile fare parte del sistema, il che ha degli aspetti negativi e degli aspetti positivi: non credo nel mito dell’osservatore esterno, oggettivo. Se parli con un antropologo o un etnologo ti diranno che l’osservazione non può che essere partecipata, cioè il curatore deve trovarsi all’interno del sistema in qualità di soggetto condizionato e condizionante. Allo stesso tempo credo sia importante leggere, studiare.

 

Le relazioni, dunque, sono importanti. Un incontro o un progetto (che comunque sottende una serie di incontri) per te significativo?

Direi che quasi tutti gli incontri con gli artisti sono stati significativi. Uno dei progetti di cui sono orgoglioso è un ciclo di conferenze, La generazione delle immagini – durato otto anni – che ho curato (inizialmente, con Marco Senaldi) per il Comune di Milano. Ogni anno si cercava un tema, una possibile lettura dell’attualità artistica. Dato che non c’erano soldi e spazi, invece di far esporre gli artisti, questi venivano a parlare dei loro lavori. Per  due ore ognuno di loro faceva vedere le proprie opere, spiegavano perché le avevano realizzate, ecc, Sono venuti: da Marina Abramovic ad Alfredo Jaar, da Shirin Neshat a Vito Acconci, da Slavoj Zizek ad Arthur Danto, per un totale di circa cento tra artisti e teorici. La maggior parte delle volte sono stati degli incontri interessanti e importanti, nel senso che alcuni di loro mi hanno fatto capire delle cose che con la sola letture di libri o la visita a una mostra non avevo colto. Il lato umano di un artista ti permette di apprezzare quanto, in un’opera, non ci sia niente di lasciato al caso, ma, al contrario, quanto tutto sia parte di un progetto. Ti consente di capire meglio la sua ricerca e di collocare in modo migliore i suoi lavori all’interno di una mostra.

 

Progetti futuri e un consiglio per chi volesse intraprendere questa carriera?

Progetti futuri… Sta per uscire Postmediabooks – Nuove geografie artistiche. Le mostre al tempo della globalizzazione – un libro sulla storia delle mostre e sui rapporti tra arte occidentale e arte non occidentale. Sicuramente, vorrei continuare a scrivere più che fare mostre perché  credo che ci siano tanti temi sull’arte contemporanea italiana che debbano essere approfonditi. Non so se sarò in grado di farlo, però, credo che sia di buon auspicio provare a ragionare anche in questi termini. In Italia, ci concentriamo quasi esclusivamente sui testi per i cataloghi delle mostre, non su saggi critici… Forse, bisognerebbe trovare delle borse di dottorato per dei giovani che studino gli ultimi 30 anni della storia dell’arte italiana così da partire da tali ricerche per fare le mostre e non soltanto da idee estemporanee o da esigenze di galleristi o di collezionisti…

Il consiglio a quanti vogliano intraprendere questa professione è, quindi, di studiare (magari anche all’estero), fare ricerca ed essere più coscienti del sistema, della storia dell’arte e del suo linguaggio, anche se questo non necessariamente (purtroppo) garantirà loro un lavoro.

 

 


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(a) Kim Soo-ja, veduta dell’instalazione all’interno del Palazzo delle poste, Trieste, per la mostra Transform, 2001, foto Mario Sillani Djerrahian

(b) veduta della mostra “Subway” nella metropolitana di Milano nel 1998, foto Marcello Maloberti