Art

Don’t make them tell you where they come from

 

Lo scorso sabato 30 novembre la galleria Metronom della città di Modena ha inaugurato la mostra Don’t make them tell you where they come from, curata da Gabriele Tosi che espone un gruppo di artisti provenienti da ogni contesto geografico e formativo: Marco B. Fontichiari (1992), il collettivo Gli Impresari (fondato nel 2014 da Edoardo Aruta, Marco Di Giuseppe e Rosario Sorbello), Daniele Marzorati (1988) e Marit Wolters (1985).

La mostra espone volontariamente i risultati di lavori svolti precedentemente dagli artisti e per altri tipi di contesti, dislocati, poiché si tenta di destabilizzare la fruizione attraverso vari espedienti. A partire dal titolo della mostra, è chiaro e immediato come il monito sia rivolto proprio alle opere, garanzia di un gioco del silenzio in cui siamo proprio noi curiosi a rischiare di avere la peggio.

Il percorso si apre con il video di Marco B. Fontichiari che ci accoglie all’ingresso della galleria con la verticalità degli schermi e l’assenza di suono destabilizzanti. Il video fa scorrere il testo degli inni nazionali italiano e americano riprodotti da un dispositivo dopo l’ascolto delle rispettive intonazioni canore. Il glitch è di tipo poetico in quanto la macchina non è in grado di produrre risultati artistici, di restituire l’armonia possibile solo tramite il canto. Il ritmo della macchina è obbligatoriamente asincrono rispetto al ritmo che ci aspetteremmo di ascoltare.

Il collettivo Gli Impresari presenta i prodotti del workshop condotto da loro al MACRO in cui hanno chiesto a degli studenti di documentare la loro performance non attraverso mezzi sofisticati bensì le qualità di ripresa offerte dall’incisione. È chiaro come il tutto avvenga secondo tempi sfalsati ai quali non siamo abituati. A queste incisioni si aggiunge il vento come si finga, una macchina che genera vento per il palcoscenico teatrale, esposta qui come una scultura dal valore estetico autonomo, amputata del suo contesto e della sua funzione. Il loro interesse principale è evidentemente il teatro e la messa in scena di eventuali difetti – sarebbe meglio chiamarli obsolescenze poiché sono perfettamente funzionanti – della tradizione scenotecnica, il tutto indagato secondo i canoni delle arti visive. Il loro punto di partenza è raccogliere le stratificazioni tecniche andate perdute o che riaffiorano nell’ammasso geologico delle nostre abbondanti tecnologie. Il loro obiettivo sarà quello, in linea con il tracciato tematico della mostra, “di far emergere tale conoscenza, che ci appartiene seppur non condivisa, non ai fini di ricerca documentaria e/o scientifica, piuttosto per renderla nostra, o nuovamente nostra, e scardinare quegli oggetti ritrovati dal messaggio (di propaganda, politico, sociale) in cui sono stati incastonati per molto tempo” – ci spiegano Marco e Rosario – come rocce sedimentarie, appunto.

Continua la riappropriazione di un immaginario di significati (inteso letteralmente in quanto collezione di significati derivati da immagini/significanti non più immediati ma portatori di interrogativi) con Daniele Marzorati, il quale schiera da un lato la fotografia e dall’altro la scultura (Tutti i diritti sono riservati, 2019) e la pittura (senza titolo, 2019). Tutte opere ideate per un contesto ben connotato, soltanto per renderci arduo il gioco del silenzio di cui prima, e proprio come i displacement materiali di cui si serve, l’artista ribalta il significato delle opere di partenza, già segni della realtà, per appiattirlo e al contempo rivelare nuove logiche. “La composizione fotografica di Tutti i diritti sono riservati sovrasta interamente il messaggio politico del gruppo scultoreo ormai celato e sostituito da un semplice rilievo della materia originaria, il marmo di Carrara, per riscattarla, attraverso l’ulteriore unicità del processo fotografico ‘site specific’ irriproducibile”, come ci racconta l’artista.

Infine Marit Wolters cela l’architettura attraverso il calco in Corridor #1, Corridor #2 e Lovers in our mind’s eye, un’operazione che le permette di bloccare un momento, prelevare un punctum temporale e connotarlo attraverso quei dettagli – incontrollabili – che la presa della realtà comporta. Il prelievo della struttura risulta frammentario, difficile per noi trovare il complementare, il processo e il materiale di partenza sono nascosti. Lo scopo non è rendere omaggio alla solidità dell’architettura ma alla poetica della sua impronta, immortalata in un momento intriso di connotazioni temporali e specificità.

Se le opere da un lato sono tutte contest o site specific, dall’altro la scelta degli oggetti è volontariamente mirata a suscitare un détournement cognitivo che strizza l’occhio alla deriva situazionista. Il senso di questa perdita dell’orientamento è quella di abituarci ad un’apertura mentale verso nuovi, inattesi e magari anche estranianti aspetti della realtà, soprattutto se siamo disposti – e le opere aiutano nell’assumere questo atteggiamento – a liberarci da certe pratiche e automatismi del nostro tempo. In breve il desiderio è quello di delegare nuovamente all’arte (declinata nella mostra attraverso la sovrapposizione di più medium) il fascinoso potere di agire sul mistero delle cose. Tale destamento da un immaginario collettivo e una memoria condivisa piatti, fortemente legati a un background omogeneizzante, viene tentato dagli artisti per via di un citazionismo affatto sterile o autoreferenziale, poiché presentato formalmente dal mescolamento di media differenti e reso concettualmente con uno spostamento di senso. La sovrapposizione di mezzi è già un primo scarto di percezione, essi sono “sempre in due in cui l’uno fa il verso all’altro – ci spiega il curatore Gabriele Tosi – e sebbene talvolta si tratta di vecchi media, questi svestono la funzione di semplici documentatori per generare situazioni”. Il training sensoriale a cui dovremmo sottoporci induce a interrompere il normale processo di metabolizzazione di immagini per contatto visivo con la realtà e cogliere l’elemento narrativo che sta dietro le opere in mostra. Il ribaltamento avviene anche per anacronismo – non è più sinonimo di obsolescenza o inutilità – nel rispetto della realtà e dei molteplici messaggi che assorbe con il tempo.

In copertina: Installation view Metronom Gallery: Tutti i diritti riservati, Daniele Marzorati, 2019; Lovers in our mind’s eye, Marit Wolters, 2018.