Art

Mappe Emozionali

In diretta con con Giorgio Distefano

 

Classe 1972, Giorgio Distefano è nato a Ragusa ma ben presto prosegue i suoi studi presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze, città nella quale oggi vive e lavora. La sua formazione inizia presso i laboratori di restauro e le botteghe fiorentine, intersecando la sua attività da scenografo e costumista alla pittura. Nella sua attività artistica, sperimenta diverse tecniche pittoriche: colori a olio, stucchi, acrilici su tela e tavola, fino alla carta, e nello specifico l’utilizzo dei cartamodelli per l’abbigliamento. La sua produzione indaga il rapporto tra luce e materia, si sofferma sullo studio del paesaggio, che si interseca come un filo conduttore nella memoria individuale e collettiva, costruendo trame in cui non mancano i simboli sacri, che si fanno portavoce di una nuova poesia visiva, in cui la sola bussola, per quanto caotica, è quella interiore. Ha partecipato a numerose mostre, personali e collettive, in Italia, in Europa e in Cina, la sua ultima personale: The Emotional Maps, a cura di Singintherain. Studio, presso Zit-Dim Art Space Gallery di Tainan -Taiwan, 2020.

 

23.03.2020, ore 17:00, inizio conversazione via mail tra Eliana Vasta e Giorgio Distefano.

 

La tua formazione da scenografo e costumista, quanto ha inciso nella produzione pittorica?

La mia formazione come scenografo e costumista ha sicuramente avuto un peso notevole nello sviluppo del mio percorso pittorico, sia per quanto riguarda l’utilizzo della materia (la tattilità che si rende necessaria nel passaggio dal progetto alla realizzazione, che sia di una scena o di un costume) e per quanto riguarda le regole della visione che cambiano per via delle distanze reali, negli spazi teatrali.

C’è sicuramente alla base del mio segno una enfatizzazione, cromatica e materica, che gioca un ruolo fondamentale rispetto al punto di vista dell’osservatore. Mi sono soffermato spesso sull’utilizzo della spatola in tal senso, ad esempio. Quel lavoro che, osservato da vicino, sembra casuale e informe, con la distanza si ricompone e armonizza, fondendosi, ricreando la visione; tecnica questa che si ritrova moltissimo nell’utilizzo del pennello da pittura scenografica.

Molti lavori devono a questi espedienti la loro genesi e la loro riuscita. Inoltre, inseguo la passione per la geometria che rimane sottesa alle cose, nel reale, ma che si evidenzia nella costruzione dei soggetti e delle ambientazioni, nelle forme primarie che generano e contengono. Lo studio del paesaggio non può prescindere da questo.

 

Cosa rappresenta per te la “materia” e la “luce”? Da cosa nasce l’esigenza di sperimentare su cartamodello?

Facendo seguito alla domanda precedente, potrei dire che la luce e la materia sono un fine necessario nella ricerca pittorica, ovviamente nel risultato estetico definitivo, ma anche un mezzo per arrivare allo stesso. Quando si lavora, la stessa luce che illumina l’opera influisce nel risultato finale, da un punto di vista fisico anzitutto, poi anche emotivo (per me, gli stati di luce). Così vale anche per la resa della luce e della materia nel dipinto stesso. Più si addensa la materia e più la luce emana dal suo interno.

Negli ultimi lavori su tela che hanno come tema le cave di pietra, questa pratica di sovrapposizione di strati riporta all’addensarsi della luce, dal fondo grigio della tela grezza utilizzata come base del lavoro. È una scoperta che dall’antichità si perpetua in ambito pittorico e che ha sempre la sua attualità, nel rapporto fondo-colore. In questo senso, la luce è una rivelazione, uno svelamento, una trasfigurazione degli spessori materici.

Il lavoro sulla carta e in particolare sui cartamodelli per abbigliamento nasce anzitutto dall’esigenza di operare su materiali familiari (in particolare legati alla nonna, sarta) quindi su un terreno conosciuto dove convivono le memorie (i sapori, gli odori, i suoni di una vissuta quotidianità) e i giochi che un bimbo può inventarsi con un materiale di recupero. Il primo utilizzo è stato legato alla figura e al corpo umano, per rimanere nell’ambito delle suggestioni che le forme stampate inevitabilmente richiamano.

In seguito, sulla scia del desiderio di sperimentare quella geometria in senso più ampio, ho voluto indagare il paesaggio, la città, lo spazio umano che si materializza nel sistema di segni “altro” che propone il cartamodello. Quella geometria che esiste nel reale e che non sempre è visibile, emerge destabilizzando, creando nuove connessioni e pretesti direzionali. Del resto, la struttura del cartamodello è legata alla necessità di mettere in piano le forme tondeggianti del corpo, come avviene nella geografia con quelle della terra. La similitudine corpo-paesaggio regge ed è stimolante da perseguire.

 

L’utilizzo di varie tecniche e materiali nasce dall’appropriazione di un’identità individuale o storica?  E che cos’è per te l’identità?

Il mio percorso di studi e la curiosità legata alle tecniche e alla storia dell’arte, mi hanno sicuramente influenzato in questo percorso. Penso che un artista di oggi debba avere consapevolezza dell’identità storica su più fronti, contemplando la possibilità di trovare un proprio linguaggio e di conseguenza una propria identità sulla base della conoscenza. Siamo impastati di storia, non potremmo essere altrimenti.

Troppe volte la ricerca spasmodica di individualismo, inteso come spettacolarizzazione di una singola “trovata”, lascia dei vuoti che alla lunga impoveriscono la ricerca artistica, rendendola fragile e disconnessa. L’identità si rivela nella personalità, nella tecnica assimilata e tradita, nella citazione appropriata, nel solitario percorso che da artisti si compie quotidianamente per sostenere il proprio mondo, il proprio lessico. Così, quanto più questo è ricco, tanto più saranno, e riconoscibili, le possibilità espressive identitarie.

 

La trasmigrazione di simboli sacri in una visione laica. Che valenza ha per te?

I simboli attraversano l’esistenza dell’uomo da millenni, intersecandosi alle religioni, alle filosofie e alle pratiche umane, in una continuità che sorprende. Mi piacerebbe che tanti di questi che sono oramai riconosciuti come simboli sacri, quindi legati al culto e alla spiritualità, potessero essere riportati a una dimensione più pratica, più umana, che è poi quella che li ha generati. Ad esempio: gli ex voto sono modellati molto spesso sulla base della realtà del corpo, della sua natura biologica. Si chiede la guarigione del corpo e si ringrazia per quest’ultima e proprio questo processo si snoda dalla fisicità concreta del dolore e della sofferenza per arrivare a quella mentale, emotiva, spirituale. Un ambito non esclude l’altro.

Ma c’è anche un corpo della terra, del paesaggio, che chiede risanamento e guarigione.  C’è una fenomenologia della visione in cui si intersecano questi livelli e l’essere umano è il primo vero spettatore-interprete. Vorrei utilizzare certi simboli come preghiere esaudite ma anche come denunce, come ammissioni di responsabilità e soprattutto perché, nel loro viaggio millenario, questi hanno assunto forme sintetiche e mirabili che continuano ad affascinare e stimolare creativamente, oltre a connotare enormemente il contemporaneo.

 

La tua ultima mostra personale “The Emotional Maps” presso la galleria Zit-Dim Art Space di Tainan-Taiwan, ha prodotto anche un catalogo. Ce ne parli?

Il catalogo realizzato in occasione della mostra a Tainan – Taiwan, è veramente un piccolo gioiello. Per questo devo ringraziare Hui Mei di Singintherain e Space per averlo concepito e realizzato in maniera artigianale. Il lavoro di strutturazione del libro è ovviamente partito dalle immagini dei miei lavori presenti in mostra, accompagnate da foto di suggestione di luoghi per me cari, che ho scattato in Italia. Il testo è sintetico, da delle indicazioni di lettura e presenta delle riflessioni sulla pratica dell’arte e sulla pittura.

La copertina, in seta cangiante con impressioni in oro, è stata realizzata da uno dei più anziani maestri rilegatori di Taipei, una figura che mi ha molto colpito per il rigore, la precisione e l’esperienza di vita che traspare dal suo volto.

Il lavoro di impaginazione ed editing fatto da Hui Mei è molto personale e riporta degli accenti grafici che rendono il breve testo accattivante. Insomma, credo sia un bell’incontro, in un punto di vista doppio, occidentale e orientale, un po’ come mi piace pensare certi miei lavori che dalle atmosfere della pittura e della grafica cinese e giapponese prendono ispirazione con ammirazione profonda.

 

Quali sono le tue coordinate per i prossimi progetti?

Si viaggia, come naviganti, a vista. C’è una progettualità concreta che per forza di cose, visto il periodo in cui siamo immersi, si è fermata e non ha al momento coordinate temporali perché si possa attuare (mostre personali e Fiere, in attesa del rientro alla normalità, come anche nuovi progetti in oriente, in Cina).  Il mio progetto del momento è continuare a lavorare sul tema della cava di pietra e quanto ci sta dietro, sia dal punto di vista di studio della luce (le cave, come delle ferite di luce aperte nel paesaggio) sia per l’implicazione dei temi relativi all’edificazione.

La pietra, il blocco, la montagna e le scale, tutti concetti – simboli che fanno pensare al lavoro, costruttivo e distruttivo dell’essere umano nei confronti della natura- mondo. A Comiso, ci sono diverse cave di pietra che negli ultimi anni sono state abbandonate per scadenza delle concessioni. Ho raccolto ultimamente diverso materiale fotografico in loco e ci sto lavorando.

Quando questi luoghi vengono dimenticati, si degradano e non assurgono purtroppo nemmeno al ruolo di rovine. Conosco, in giro per l’Italia, diverse realtà che hanno trasformato le vecchie cave abbandonate in eco-musei fruibili dai visitatori, con annessi spazi di presentazione del lavoro di estrazione dei cavatori e altri di galleria vera e propria dove presentare mostre con tematiche affini.  Ci sarebbe da riflettere molto su questo; personalmente non ho le forze e la possibilità di pensare a un progetto così ampio, ma questa potrebbe essere invece l’occasione per strutturare una serie di opere proprio su questo tema.

 

24.03.2020, ore 18:05, inizio conversazione in diretta via Instagram.

Alcuni partecipanti alla Live fanno delle domande a Giorgio Distefano.

 

Hai detto che l’utilizzo dei cartamodelli nasce per un discorso ludico, non credi che invece identifichi il tuo lavoro?

Certamente, all’inizio questa componente è stata forte e mi ha permesso di giocare fino a che non ho compreso che, in realtà, erano diversi gli stimoli che la stampa della carta mi forniva, dalla prepotenza della geometria prestampata, alla specificità di utilizzo relativa al corpo umano, che poteva poi essere traslata e riportata nel paesaggio, così come sul corpo. Questa sovrapposizione di segni e linguaggi, a questo punto diventa fortemente caratterizzante del mio lavoro e della mia identità artistica.

 

A cosa stai lavorando in questi giorni di quarantena?

Agisco su più fronti, avevo dei lavori che volevo sistemare, perché abbandonati in sosta o da rivedere perché non convincenti. Questi periodi fanno riemergere dubbi e perplessità che vanno affrontati con il giusto spirito. Rielaborare o rimettere a posto, pur essendo operazioni diverse alla base, diventano complementari nel processo creativo. Poi, continuo il mio lavoro sulle cave, su tela, procedendo nello studio del paesaggio e della luce, che in questi luoghi prende un corpo speciale ed è per me di grande richiamo.

 

In questo particolare momento che tutti stiamo vivendo, questa reclusione forzata ha prodotto qualche ispirazione specifica?

Non ha prodotto al momento nulla di specifico, anche se sarei portato a lavorare in maniera più cupa, pensando ad un’evoluzione su queste tematiche. L’inchiostro sarebbe di certo la tecnica più consona, da un punto di vista emotivo, per la crudeltà e incisività che a volte può avere nella sua essenza. Ma meglio attendere, fare sedimentare ogni stimolo perché si possa poi riprendere, più in là, con la giusta obbiettività.

 

Che declinazione assume il concetto di “mappa” nella tua ricerca?

Se facciamo riferimento alla mia ultima mostra “The Emotional Maps”, molte mappe hanno a che fare con una geometria vera, reale, con dei luoghi che hanno ispirato una determinata visione. Credo che noi viviamo in una realtà in cui è facile perdere le coordinate e nella quale facilmente si perde la percezione dell’insieme, quando si dovrebbe analizzare la nostra percezione interna, che può anche essere caotica, destabilizzante, così come l’esterno poi si palesa, una volta usciti dal confortante controllo dei dispositivi che ci permettono quotidianamente di orientarci (telefono, indicazioni stradali e coordinate strutturali dello spazio urbano).

 

Se dovessi scegliere un ex-voto che ti identifica, quale sceglieresti?

Fra tutti quelli realizzati: la casa, che sento più vicina, e che richiama alla casa di Loreto, dove esiste, secondo la tradizione, la casa di Nazareth portata in volo dagli angeli dalla Terrasanta. È questo un ex voto raro, che allude più al concetto della famiglia e del luogo degli affetti, non è dunque riferito specificatamente all’edificio in sé. In realtà è anche il bene materiale a cui tutti aspiriamo per poter vivere, e per il quale tutti in qualche modo abbiamo problematiche da elaborare. Luogo di protezione e calore familiare in senso ampio, ma anche rifugio fisico e solido che protegge il corpo, anche nella sua singolarità.

 

In certi lavori tuoi, la grandiosità della natura in relazione a quanto possa essere piccolo e insignificante l’uomo; quasi fosse una profezia, visti i tempi… è un’intuizione artistica?

Una serie dei miei lavori, riguarda il tema delle “Carte della sopravvivenza nel Mediterraneo” che risale a un paio di anni fa, e riflette l’argomento attuale che stiamo vivendo dell’innalzamento del livello delle acque del Mediterraneo, dove mi riferisco soprattutto alla Sicilia, alle sue coste e a gran parte della pianura padana, che saremo costretti ad abbandonare in una migrazione forzata non causata da elementi politico/sociali (che generalmente tengono acceso il dibattito sugli spostamenti nel bacino mediterraneo) ma dalla grande forza incontrollabile e imprevedibile degli elementi naturali, che segnano destini e nuove geografie, imponendo limiti e segnando inevitabilmente la statura dell’essere umano a cospetto della natura.

 

Le righe colorate dei cartamodelli usati nelle tue opere, potrebbero essere letti come passaggi di energia?

Assolutamente si, le linee di diversi colori, scelte prima di eseguire un lavoro su un cartamodello specifico, sono strutturali e indicano delle traiettorie anche energetiche, da seguire anche solo per suggestione. Parte del lavoro pre-pittorico è legato all’osservazione dei supporti e a quanto possano essere efficaci certe sovrapposizioni cromatiche di segni.

 

Dalle tue opere risulta all’occhio la forte presenza di linee come nelle mappe, di figure dai contorni frammentati e spigolosi, che impatto emotivo ti da invece la forma tonda in sé?

La forma tonda mi mette in soggezione, il mio controllo mi impone di trovare degli appigli nelle geometrie con angoli e spigoli. Sarà forse un esercizio per il prossimo futuro, quello di verificare lo scivolamento nel tondo, l’abbandono alla dinamica circolare.

 

Com’è stato partecipare ad Art Verona, una tra le più importanti vetrine dell’arte contemporanea in Italia?

Un ottimo riscontro da parte dei curatori, del pubblico e dei collezionisti. Il mio lavoro pittorico non è inserito sicuramente in quelle che vengono definite le tendenze ufficiali, ma sono rimasto colpito dall’apprezzamento, ed è stato importante avere queste conferme. Le fiere in genere sono un momento di incontro anche tra artisti e questa è una cosa che di sicuro aiuta a instaurare nuovi rapporti e sedimentarne di altri. Il sistema tende in genere a creare degli scollamenti; credo sia fondamentale tenere sempre vivo il confronto e il dialogo con chi fa questo mestiere in maniera diretta.

 

Puoi parlare del tuo sentimento verso la “pietra”, del ritrarla, e del dipingerla sulla tela?

Ogni pietra ha il suo volto, le sue rugosità e la sua materia specifica e questo mi da la sensazione che siano dei volti, un po’come i paesaggi su cui lavoro. Il dato antropologico è ricorrente e sotteso alla storia dell’edificazione, della demolizione e dello scavo; il lavoro dell’uomo imprime segni e lascia impronte sulle superfici, per questo trovo ogni pietra espressiva a suo modo.

 

Quando una mostra a Siracusa, nella Sicilia del sud?

Spero presto, non appena sarà passato questo brutto momento di incertezza, mi piacerebbe portare in mostra il lavoro sulle cave di pietra di Comiso, sia per un fatto nostalgico che di appartenenza e conclusione di un percorso che sto ancora compiendo.