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VERTICALE episodio #1

 

Il tentativo dell’altro

Le esplorazioni di Annamaria Ajmone

 

Il primo episodio di VERTICALE è dedicato a due lavori di Annamaria Ajmone, performer e artista associata di Triennale Milano Teatro, in cui sarà ospitata la sua prossima performance Senza Titolo nell’ambito di FOG Performing Arts Festival, il 25 e 26 marzo 2023.

 

Il lavoro di Annamaria l’ho conosciuto l’anno scorso a Santarcangelo quando ho visto la sua ultima creazione per lo spazio scenico La notte è il mio giorno preferito ed è proprio da quel lavoro che è partita la nostra chiacchierata.

È quasi notte, una figura umana si muove all’interno di una foresta, anzi una tecnoforesta costituita da elementi volutamente artificiali pensati da Natália Trejbalová. La performance è orientata (o spaesata) dal fascino di ritmi “naturali”, fruscii, istinti a cui a dare suono è stata Flora Yin Wong. Il buio avanza sempre di più e mentre lo sguardo ha timore ad adattarsi, noi spettatori perdiamo il contatto con la dimensione-giorno. Siamo invitati a perdere le nostre coordinate abituali e abbracciare le tenebre come opportunità, per sentire qualcosa ancor prima che per vederla. A cosa affidarci a quel punto per proseguire quello che è diventato un esercizio di percezione?
Lo spettacolo mi aveva proprio incuriosito e volevo saperne di più.

Annamaria mi racconta che è partita da un testo di Baptiste Morizot dal titolo Sulla pista animale, in cui il filosofo tenta di ridefinire e reintegrare nel nostro immaginario lo spazio non urbano che si estende oltre la società urbana, d’altronde cosa vuol dire “andare in natura”? Andare all’”aria aperta”? L’alterità con cui ci riferiamo agli spazi non urbani racconta molto del nostro sentirci al centro/al di sopra del mondo. Per abbandonare la prospettiva antropocentrica il filosofo invita quindi a intraprendere la pratica dell’inforestamento o tracciamento filosofico, che consiste nell’immergersi in un agglomerato di piste, tracce, sentieri incolti battuti da altre creature: lupi, volpi, linci, insetti, funghi e organismi vegetali. Per Morizot occorre unire tutte le facoltà di cui dispone l’essere umano, dal ragionamento alla percezione corporea, per poter accogliere le modalità con cui altri esseri abitano il mondo.

 

Nelle fasi di preparazione dello spettacolo Annamaria ha quindi esplorato (perdendosi) le foreste della Val d’Illiez e praticato in prima persona l’inforestamento per poterci restituire in forma di spettacolo il suo personale tentativo di diventare altro. «Un tentativo fallimentare» avverte «non mi interessa diventare effettivamente altro, ma è proprio questo tentativo che secondo me ci dà la possibilità di cambiare le cose intorno a noi, questo spostarci da una posizione, questa tensione verso l’altro è al centro dello spettacolo».

 

Annamaria Ajmone in La notte è il mio giorno preferito (foto di Andrea Pizzalis)

Annamaria Ajmone in La notte è il mio giorno preferito (foto di Andrea Pizzalis)

 

Capisco quindi che il lavoro di Annamaria Ajmone è un costante esercizio in due direzioni parallele: allargare la percezione e ampliare la ricezione. Questa dimensione performativa caratterizza ancora di più il secondo lavoro di cui abbiamo parlato Senza Titolo, una performance presentata per la prima volta al teatrino di Palazzo Grassi a Venezia e poi riproposta al Museo di Castelvecchio di Verona. Pensata quindi per spazi non teatrali, anche in occasione di FOG la performance si svolgerà in uno spazio espositivo ovvero al primo piano della curva della Triennale «uno spazio bellissimo, con tantissime finestre che non sarà allestito, quindi completamente vuoto». Senza titolo si compone di tre performance di 30 minuti che avvengono in tre momenti diversi della giornata, gli spettatori potranno scegliere se vederne una o tutte.

 

© Thomas Ba | Fonte: triennale.org

 

In questi lavori Annamaria non pensa a una partitura coreografica ma scrive la performance con tutto quello che avviene mentre la performance accade: il movimento degli spettatori, i suoni, le linee dell’architettura e la luce. Una performance basata sulla tecnica dell’improvvisazione che caratterizza una parte importante della ricerca di Annamaria, quella arrivata più di recente con l’esperienza e la pratica costante.

 

© Matteo De Fina | Fonte: triennale.org

 

«Negli anni sono andata a sviluppare questa tecnica in maniera sempre più meticolosa, sono andata a spogliare sempre di più questa pratica da qualsiasi elemento che potesse supportare da un punto di vista scenico, nei primi anni magari cercavo delle musiche o definivo meglio gli spazi, adesso lavoro solo con quello che accade». Nello spazio ci sono solo lei e i suoi abiti, di volta in volta diversi anche quelli e pensati da Fabio Quaranta. Queste performance, ci racconta Annamaria, richiedono un tipo di concentrazione del tutto diversa da quella di uno spettacolo. In costante dialettica con gli elementi circostanti, i movimenti di Annamaria costruiscono traiettorie di sguardo per poi annientarle subito dopo, in un lavoro di sfrangiamento dello spazio scenico che restituisce potenza al semplice ’atto del guardare dello spettatore, portandolo alla sua essenza. Chi fruisce è libero di spostarsi, alzarsi, sedersi, annoiarsi, eccitarsi – insomma non “interpretare” lo spettatore ma esserlo. Un gioco in fin dei conti, affascinante e spaventevole allo stesso tempo, in cui esporsi all’altro rimane ancora una volta l’opportunità più importante per trovare il nostro spazio nel mondo.

 

 

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