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Intervista a Giusy Pirrotta

 

Giusy, parlaci di te, della tua formazione e delle tue esperienze professionali.

Mi è sempre piaciuto lavorare con materiali diversi. Sento di saper fare molte cose e allo stesso tempo di non saper fare nulla. Inizio quindi a scoprire le possibilità di un linguaggio e penso già a come integrarlo con altri mezzi che possono sembrare completamente diversi. Questo atteggiamento apparentemente dispersivo, mi da una certa libertà di sperimentare e allo stesso tempo di allargare la mia ricerca non costringendola all’interno di strutture predefinite. La mia formazione è stata quindi sempre soggetta a questa attitudine. Perciò ho cercato di stare in contesti formativi e lavorativi dove ci fosse la possibilità di “fare” usando attrezzature, studi e laboratori diversi che più si adattassero ai bisogni del mio lavoro. Al Central Saint Martin College ho lavorato molto con la pellicola e le diapositive sia in 35mm che in medio formato. Ho avuto la possibilità di stampare e sviluppare film 16mm per uno dei miei primi lavori realizzati con metodi di stampa e sviluppo completamente DIY (Enlighten). In seguito, durante una residenza nel Dipartimento Film e Video del Campus ho potuto usare la Rostrum Camera e i metodi di animazione e titolazione filmica per la realizzazione del film Vanishing Point.

Durante il programma di dottorato pratico-teorico all’UCA, University for the Creative Arts, ho continuato a lavorare in analogico ma concentrandomi maggiormente sui colori, le illusioni ottiche e la componente scultorea che si trasforma sotto la luce o il movimento della camera. Ho lavorato in studio di registrazione costruendo dei set per la realizzazione di brevi film che sono poi divenuti parte d’installazioni come RGB, The qualità of Scale e Between the Glimpse and the Gaze. Sempre all’UCA mi sono specializzata nello sviluppo e la stampa di fotografia a colori lavorando in camera oscura e sperimentando sull’alterazione di dominanti cromatiche specifiche. Mi sono inoltre cimentata fabbro ed elettricista per la realizzazione di lavori come Lightsign Rainbow, e più recentemente ceramista.

 

La tua ricerca è incentrata sulle potenzialità espressive della luce. Per fare ciò crei delle installazioni in cui metti in contatto/relazione la luce (video, fotografie, sorgenti varie) con sculture, carta da parati, ambienti in generale. Spiegaci meglio, mediante lavori che hai realizzato, il tuo studio e le considerazioni cui sei giunta

Ho avuto sempre un’attrazione verso le macchine, l’attrezzatura e i componenti meccanici che stanno dietro la messa in scena sia teatrale che cinematografica. Perciò in maniera quasi ossessiva ho smontato, rimontato, assemblato o anche solo accumulato ed osservato pezzi di proiettori super 8 e di diapositive, proiettori mini LED digitali, visualizzatori, lenti, diapositive stesse, pellicola, lampade, circuiti, sensori di movimento. Attraverso l’uso di mezzi analogici, ho focalizzato la mia attenzione più sul processo di realizzazione che sul prodotto finale, o diciamo che il processo di realizzazione ha sempre influenzato molto il prodotto finale indipendentemente dal mezzo usato.

Nel mio lavoro parlare di studio della luce significa parlare di analisi del fenomeno di proiezione e dell’inestricabile relazione tra proiezione e attrezzatura usata per fruire di essa. Questi elementi hanno naturalmente un contesto che comprende ambienti, spettatori e dinamiche del vedere. Il pubblico si aspetta di vedere cose a cui è abituato in maniera passiva ed automatica, come per esempio un proiettore di fronte o nei paraggi di una proiezione. Mi piace giocare su quello che lo spettatore si aspetta di vedere e su com’è abituato a vedere in determinati contesti. Mi piace scardinare il limite tra pubblico, privato, elemento domestico, ed elementi di arredo o decoro, anche quelli che usualmente sono disposti intorno allo schermo o sul comodino di casa tua.

Mentre lavoravo all’installazione Between the Glimpse and the Glaze il mio scopo era di realizzare un ambiente che accogliesse lo spettatore come all’interno di una platea cinematografica ma non in maniera statica. Lo spazio dell’installazione è stato studiato come uno spazio di transito sia dello sguardo che del corpo. Lo schermo in questo caso diventa una superficie decorativa in movimento che non ha bordi poiché figurativamente la proiezione continua al di fuori dei suoi limiti e riproduce l’elemento decorativo della carta da parati e le sculture, entrambe esibite nello spazio fisico. Lo schermo non è più il punto di fuga all’interno dell’anfiteatro dove tutti gli sguardi convergono, ma si espande, come si espande la sensazione fisica del vedere al di fuori dei bordi precostituiti del quadro visivo.

 

Oltre alle installazioni realizzi degli oggetti scultorei attraverso i quali studi le relazioni tra i materiali utilizzati e la luce. Raccontaci alcuni progetti.

L’incontro con la ceramica è stato fortuito in quanto era un materiale che da film-maker snobbavo molto. Dopo aver usato in molti lavori l’attrezzatura in maniera visibile nello spazio come parte del lavoro esibito, notavo spesso che l’attenzione del pubblico non era tanto sul lavoro proiettato ma sull’apparecchiatura usata. Questo era comunque anche uno dei miei intenti, ma la parvenza del proiettore 16mm, il looping table o dei proiettori di diapositive, creavano un atmosfera che riportava, sia lo spettatore che il lavoro, ad una dimensione feticista collegata ad un mezzo considerato da molti obsoleto o in via di estinzione, e in qualche modo recuperato da un anfratto lontano nel tempo. Osservando queste macchine volevo in qualche modo dare loro un’ autonomia legata alla loro funzione trasformandone però le fattezze anche in maniera ironica, in modo da costituire una parvenza diversa che si distaccasse dall’immaginario collettivo collegate ad esso.

La ceramica è un materiale malleabile che nella sua organicità è in qualche modo simile alla pellicola, si può toccare e modificare, si presta diciamo a qualsivoglia movimento delle dita, a differenza del metallo che richiede anche una certa prestanza fisica. Entrambi i materiali hanno processi di lavorazione non immediati come quello digitale. Abbiamo quindi le attese per lo sviluppo della pellicola, la disponibilità non illimitata di scatti o di girato, i tempi di essiccazione della ceramica e di cottura del pezzo. Questo secondo me mette l’artista più a contatto con il tempo e la sua dimensione legata ai processi organici naturali, consente inoltre di riflettere maggiormente ed essere piacevolmente sorpreso da risvolti inaspettati determinati dai vari processi di lavorazione.

Gli oggetti scultorei su cui lavoro vogliono rielaborare la forma del proiettore come oggetto cinematico e la forma della lampada come oggetto di design, con l’intento di dare corpo ai fenomeni percettivi legati alla luce e di giocare su quello che lo spettatore si aspetta di vedere da un oggetto che emana luce come la lampada, o la proietta come il proiettore.

La ceramica si presta bene a questo scopo in quanto, a seconda anche degli smalti che vengono usati, da la possibilità di creare effetti diversi sulla superfice dell’oggetto. Inoltre è possibile lavorare sulla forma di un oggetto in maniera più libera in modo da restituire al prodotto finale delle fattezze che risultino organiche, morbide, e che sono istintivamente riconducibili sia al mondo della scultura che a quello del design.

 

Come risponde il pubblico alle tue installazioni? Nei tuoi lavori approfondisci tante tematiche importanti, quali: la triade collezionista, opera d’arte e valore dato a quest’ultima dal sistema; il rapporto spazio-spettatore in relazione a opere realizzate con mezzi diversi; la relazione tra l’immagine in movimento l’uso della luce e l’interazione di questi due elementi con oggetti scultorei e lo spazio espositivo che poi è anche l’oggetto della tua tesi di dottorato.

Molti dei miei lavori sono site-specific e sono studiati pensando sia allo spazio che li ospita che al pubblico. Voglio che lo spettatore si faccia delle domande o che in qualche modo, mentre entra all’interno di questi ambienti, si interroghi anche in maniera inconsapevole sul ruolo degli oggetti che vede e sul modo di vedere e percepire lo spazio che lo circonda. Questo accade spesso soprattutto in situazioni dove metto in discussione i limiti tra linguaggi apparentemente diversi. Durante il programma di dottorato all’UCA ho avuto la possibilità di sondare i limiti dell’uso dell’immagine in movimento in relazione alla scultura e il design con lo scopo di espandere l’esperienza dello spettatore in relazione ai limiti dello schermo.

Il progetto di ricerca dal titolo Moving image and the space around the frame: time-base installazione and forms of experiences ha lo scopo di osservare e definire la componente scultorea e architettonica dell’immagine in movimento attraverso lo studio dell’uso del mezzo analogico osservando le relazioni tra movimenti chiave che si sono sviluppati dalla fine degli anni 60 come Expanded Cinema e Structural Film e la contemporaneità. L’uso del film fuori dalla sala di proiezione ha contribuito alla trasformazione stessa del mezzo che per adattarsi a contesti diversi come la Galleria e il Museo è diventato formato di proiezione o componente scultorea installativa. Il progetto inoltre investiga le relazioni tra elementi cinematici come il fascio di proiezione, il proiettore e lo schermo, e la de-contestualizzazione di questi nella deconstruzione dell’esperienza cinematica fissa, con lo scopo di definire un’esperienza dinamica che coinvolga allo stesso modo sia l’occhio che l’estensione corporea dello spettatore, e definisca le diverse tendenze relative all’installazione dell ‘immagine in movimento nella contemporaneità e i diversi contesti.

Questa ricerca ha portato il mio lavoro allo sconfinamento tra linguaggi che originariamente erano basati sullo studio di quello che c’è dentro lo schermo.

 

Quali artisti, non per forza solo visivi, hanno influenzato il tuo modo di pensare e la tua ricerca?

Molti. Alcuni che mi vengono subito in mente: Olafur Eliasson, Tacita Dean, Rosa Barba, Robert Irwin, James Turrel, Anthony McCall, Tobias Rehberger, Runa Islam, Tobias Putrih, John Eberson, Emma Hart, Susan Hiller, Philip Perreno, Steve McQueen, Yayoi Kusama, Sandra & Louise Recorder, Guy Sherwin, Superstudio, Achille Castiglioni.

 

A cosa stai lavorando in questo periodo?

Sto lavorando a diversi progetti tra cui un breve film, delle sculture in ceramica e una pubblicazione che saranno tutte incentrate sullo stesso tema. Inoltre ho in mente da tanto tempo un progetto che prevede un evento perfomativo legato alla moda e gestito secondo le dinamiche di una vendita di oggetti e arredi.

 

Che consigli daresti a quanti vogliono intraprendere una carriera come la tua?

Rischiare e soprattutto divertirsi.

 

In copertina: the house of the collector, veduta parziale dell’installazione, 2018

sito web: www.giusypirrotta.com