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Intervista ad Alessandra Ferlito

 

Chi è Alessandra Ferlito?

Una persona curiosa che ama osservare, ascoltare, dubitare, lasciarsi travolgere dalle cose in cui crede e agire dietro le quinte.

 

Da quanto tempo fai il curatore e qual è stato il tuo iter formativo e lavorativo?

I miei primi passi nella curatela risalgono al 2007, un tempo tutto sommato molto recente. Dopo la laurea in Conservazione e un master in Management, sono rientrata a Catania e ho subito cominciato a recensire le mostre che avevo occasione di vedere in Sicilia; sono diventata giornalista, assistente di galleria e ho co-fondato l’associazione Erbematte, che mi ha dato modo di sperimentare liberamente, di – altrettanto liberamente – sbagliare, imparare sulla mia pelle (e anche su quella di Raffaela Leone, la preziosa Presidente), di conoscere il territorio e le mie aspirazioni/ambizioni rispetto ad esso e rispetto al “mestiere” del curatore. Dopo queste prime esperienze, nel 2009 è cominciata la mia collaborazione con la Fondazione Brodbeck, nata nello stesso anno. Qui, grazie ai programmi di residenza attivati, ho avuto la fortuna di assistere curatori e artisti molto diversi  (per provenienza geografica e quindi culturale, nei metodi, nel linguaggio, nell’approccio ecc.) tra loro; da questo punto di vista credo sia stata un’ottima palestra e una grande fonte di arricchimento. Al contempo ho mantenuto e iniziato collaborazioni con alcune “teste” e realtà locali che reputo molto valide, capaci di confrontarsi con la scena internazionale e per questo, secondo me, meritevoli di essere supportate ed “esportate”.

 

Qual è – secondo te –  il ruolo del curatore, oggi, e quale ruolo si accinge a ricoprire, in futuro, all’interno del “sistema dell’arte”?

La storia della curatela, per quanto breve e ancora in corso di scrittura, mi insegna che non sono mai esistite regole universalmente valide nella “costruzione” del ruolo, dimostrando quanto la figura del curatore possa essere flessibile in tutti i suoi aspetti (mentre lo dico mi viene in mente Walter Hopps, “un perfetto insider, ma anche un irrimediabile outsider”, come lo ha descritto  Ulrich Obrist¹). Questa osservazione mi sembra particolarmente valida se guardiamo ai giorni nostri. Mi pare che il curatore, rispetto agli altri attori del sistema, incarni un figura sempre più – legittimamente – ambigua/ibrida/contaminata (penso all’approccio di Federico Ferrari, che non si definisce un curatore, o a quello di Artur Żmijewski per l’ultima Biennale di Berlino, come, ancora, a tutti i contributi per dOCUMENTA(13), per citare i casi più discussi di questo periodo). Forse è per questo che non ho ancora capito quale sia, in definitiva, il suo ruolo; o meglio, da quello che ho visto, sentito, studiato e sperimentato, credo sia forse più appropriato parlare di ruoli diversi legati a circostanze, ad approcci e intenti diversi. E forse è per questo che non riesco ancora a prevedere in che modo si evolverà questa figura. Quello che mi auguro, semmai, è che vengano  accentuati alcuni “caratteri” del mestiere: ricerca, sperimentazione e complicità.

 

Quali caratteristiche sono indispensabili per fare questo lavoro?

Vocazione per la ricerca, sensibilità, fantasia, umiltà, capacità di mettersi continuamente in discussione, coscienza, incoscienza e un minimo di polso duro?! Certo, potremmo aggiungerne tante altre …

 

Credi che la figura del curatore sia trasversalmente riconosciuta? Perché?

Se ho centrato il senso della domanda, credo si possa fare una distinzione tra ambito “istituzionalizzato” (mi riferisco alla rete museale come alle biennali o alle fiere internazionali) e circuito privato o indipendente; se nel primo caso il curatore rappresenta un’autorità – nella maggior parte dei casi – indiscussa, guardando ai circuiti indipendenti o al mondo delle gallerie private, non credo la sua figura sia sempre riconosciuta; lo dico pensando, ad esempio, a quanti artisti preferiscono farne a meno, scegliendo di auto-curare le proprie mostre; oppure a quanti – per un altro verso – preferiscono affidare la curatela ad altri artisti (piuttosto che a scienziati) anziché a curatori. Il motivo di questo mancato riconoscimento, credo, stia proprio nel carattere flessibile che la figura del curatore ha assunto; flessibilità che, secondo me, ha contribuito a generare l’opinione diffusa – ma in buona parte distorta – secondo la quale chiunque possa fare il curatore, nel modo e con gli strumenti che preferisce. Per contro, non posso non considerare il fatto che troppo spesso il suo ruolo sia interpretato e vissuto con molta superficialità, forse, tanta da giustificare un atteggiamento di rifiuto da parte degli altri attori del sistema.

 

Quando curi una mostra da cosa parti? Come scegli gli artisti, il tema, ecc? Spiegami, per sommi capi, il tuo metodo di lavoro.

Non mi è semplice rispondere a questa domanda perché, quello del metodo, credo sia un argomento complesso e delicato. Anche a questo proposito, nutro lo stesso genere di perplessità espresse in relazione al ruolo:  in cosa consiste, in definitiva, il metodo curatoriale? É possibile sposare un metodo e applicarlo ad ogni diversa circostanza che si affronta? Per parlare della mia esperienza personale, oggi capisco che il mio approccio alla curatela sia stato, in parte, segnato da “incontri” adolescenziali non sospetti; mentre frequentavo il Liceo artistico, studiando Storia e teoria del restauro, ho molto apprezzato la teoria del “caso per caso” di Ambrogio Annoni ², dove si negava la possibilità di stabilire l’unicità di metodo, in favore, invece, dell’adeguamento del metodo alle esigenze di ciascun progetto, “caso per caso”, per l’appunto. Trovai interessante, di quella teoria, il fatto che guardasse all’opera bisognosa di intervento come ad un essere umano, considerando tutte le sue specificità, problematiche, peculiarità. Per estensione, era come affermare che ogni situazione, come ogni persona, non possa che essere diversa da qualsiasi altra; di conseguenza, il metodo utilizzato in una determinata situazione non necessariamente è adeguato ad un’altra situazione, anzi. Ricordo che mi sembrò subito un atteggiamento molto onesto. Credo di averlo lentamente assorbito e inconsciamente applicato, sin dalle prime esperienze curatoriali. Oggi, per rispondere alla tua domanda, quando scelgo di curare una mostra so per certo che finirò, in un certo senso, per dedicargli un metodo. Tuttavia, nel mio modo di procedere, oltre che molte variabili, esistono delle costanti: cerco sempre di partire dalle necessità che il contesto nel quale mi muovo manifesta; trovata la connessione tra queste urgenze e le mie, cerco di renderle entrambe condivisibili e “produttive”, in termini teorici ed estetici. Nello strutturare questo “apparato di senso”, trovo sia fondamentale riuscire a instaurare un rapporto di complicità totale con gli artisti e farli sentire liberi di sperimentare fino all’ultimo momento utile. Per sommi capi, ad oggi, questo è il mio metodo.

 

Parlaci di un progetto e/o di un incontro, per te, significativo (in positivo o in negativo?)

Scelgo di parlare del positivo, che mi mette di buon umore. Per il grado di empatia tra tutti i coinvolti, Hologram, la (falsa) personale che canecapovolto ci ha regalato nel 2010 (a cura di Helga Marsala, presso Riso Museo d’Arte Contemporanea della Sicilia,  www.canecapovolto.it ) è un stato un evento certamente significativo. La mostra mi vedeva coinvolta in quanto curatrice, ma con un ruolo davvero insolito. Si è trattato di un incontro e progetto allo stesso tempo; un incontro irripetibile che proveniva da mesi, se non addirittura anni, di scambi teorici, che ha dato vita ad un progetto, sempre più intenso e profondo, tuttora in corso. Per gli stessi motivi, non posso non citare un altro incontro determinante, strettamente correlato al precedente, quello con Alessandro Gagliardo (il “giovane” siciliano più geniale che io abbia finora conosciuto), che ha portato alla elaborazione di un progetto chiamato Cronaca, strappo alla narrazione televisiva, pubblicato nel novembre 2011 sul sito  www.galleriaoccupata.it. Entrambi gli incontri (ma insieme a questi, tanti altri) hanno certamente avuto degli effetti notevoli sul mio modo di concepire e vivere la curatela.

 

Progetti futuri?

Ne possiamo riparlare quando saranno “attuali”? Non voglio fare la misteriosa, ma ho imparato a non anticipare nulla che non sia stato ufficialmente confermato. Mistero a parte, ho deciso di tornare a fare un po’ la studentessa, senza dimenticare il resto, ovvio.

 

Un consiglio a chi voglia intraprendere questa professione?

Quando, nel 2007, molto ingenuamente chiesi a Marina Sorbello consigli e dritte per potere remare nel mare mosso della curatela, lei mi disse qualcosa del genere: “Nessun consiglio, comincia a fare; fai e vedrai che capirai da sola cosa e come è meglio per te”. In quel momento, confesso, pensai volesse fare la misteriosa (come molti, in effetti, amano fare) e liquidarmi con una frase superficiale e di circostanza. Col passare del tempo ho capito, invece, quanto quelle parole fossero sostanzialmente oneste, probabilmente le migliori che potesse donarmi. Le inoltro, allora, a tutti quelli che vogliano lanciarsi in questo “affare”, sperando non si illudano che sia semplice, sempre piacevole o gratificante.

 

— ¹ In Hans Ulrich Obrist, Breve storia della curatela; postmedia, Milano 2011; p. 11.
² In Ambrogio Annoni, Scienza ed arte del restauro architettonico. Idee ed esempi, Edizioni Artistiche Framar, Milano 1946.

 

 

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(a) Cronaca. Strappo alla narrazione televisiva_2011_home page del sito www.galleriaoccupata.it

(b) Senza titolo con sottotitolo. Quando il processo è metà dell’opera_2010_BOCS CT_Artisti_Gabriella Ciancimino, Alessandro Gagliardo, Zoltan Fazekas_foto Z.Fazekas

(c) L’ospite ostile_Annamaria Di Giacomo e Stefania Zocco interagiscono con l’Agorà di Sebastiano Mortellaro_2012_BOCS, CT