Art

Intervista a Mario Ciaramitaro

di Maria Giovanna Virga

 

Ogni due anni siamo abituati a considerare la città di Venezia come una preziosa vetrina per l’arte contemporanea, capace di attirare le attenzioni internazionali. Nell’ultimo decennio la città lagunare è riuscita anche ad assumere un ruolo rilevante per la nascente scena artistica italiana, offrendosi come valida alternativa alla “costosa” Milano. La co-presenza di importanti istituzioni pubbliche e private ha, infatti, accolto e nutrito una nuova generazione di artisti, i quali hanno scelto la città veneta come base operativa per poter creare una rete di relazioni e sviluppare importanti progetti personali.

Con Mario Ciaramitaro si apre “live in Venice” un ciclo d’interviste, dedicato a giovani artisti che si sono formati a Venezia e che continuano a mantenere con la città un rapporto privilegiato.

 

Come ti sei avvicinato al mondo dell’arte e qual è stata la tua formazione?
Riguardando indietro, devo dire che mi sono lasciato affascinare dalla possibilità di creare qualcosa in maniera libera. Spesso penso alla comunità di artisti come ad una comunità di autori. Se è vero che adottare alcune parole cambia la nostra forma mentis, utilizzare questa definizione mi ha sempre rilassato. Le tappe che mi hanno portato a questo momento sono incroci molto casuali di chiacchiere, appunti, luoghi e persone. Se proprio vogliamo cercare un imprinting, credo lo si possa ritrovare in un servizio di Rai Tre di una domenica pomeriggio del gennaio 2004. Il tubo catodico mostrava The Weather Project di Olafur Eliasson. Rimasi affascinato da quella immagine, ma non andai a cercare oltre. Un anno dopo allo IUAV capii cosa avevo visto e cominciai a cercare qualcosa.
Passato qualche anno tra le arti, ho capito che in realtà stavo cercando un mondo ibrido di segni narrazione ed ironia e che vivevo la ricerca e i lavori come una specie di potenziamento personale. Capire come essere responsabili della propria educazione è stata la mia formazione.

 

Ci sono stati degli incontri o esperienze che all’interno del tuo percorso artistico sono stati decisivi per la tua crescita ed il tuo lavoro? Se sì, potresti raccontare un’esperienza per te significativa?
Uno dei momenti più importanti per me è stato incontrare Gillo Dorfles nel suo appartamento di Milano, durante le interviste che i Blauer Hase conducevano per il progetto Furniture Music. Incontrarlo fu per me un’esperienza unica, condita dalla freschezza che si ha quando si è dei “pischelli” e dalla fascinazione che provavo per ogni singola parola che pronunciava. Era incredibile stare davanti al testimone italiano di tutto il Novecento. Casa sua è piena di quadri e di libri ed eravamo circondati da tracce e segni: era come se milioni di linee partissero da tutte le pareti per convergere sulla testa di Dorfles.
Di recente è stato fondamentale allontanarmi per un mesetto da Venezia e andare in India, grazie a un programma di scambio intrapreso da Paolo Rosso tra Venezia e Guwathi (Assam, India). Paolo sta portando avanti nella città di Guwathi un progetto di costruzione di un grande pontile in bambù (bamboo walkway) e si è messo in contatto con i Desire Machine Collective (gli artisti indiani che hanno rappresentato l’India alla biennale del 2011). Paolo è un “magnete umano”: grazie alle sue qualità ed istinto ci siamo ritrovati in molte situazioni imprevedibili sia per i luoghi che per le persone, che abbiamo incontrato e che mi hanno dato un nuovo panorama di riferimento. Ho cominciato a riflettere sul concetto di realtà che portiamo sempre con noi e a quanto sia difficile staccarsene. I primi giorni infatti furono di totale spaesamento e spossatezza: eravamo circondati da rumori, odori e persone alle quali non sapevamo come rispondere. Ad ogni angolo la realtà si moltiplicava esponenzialmente. Poi pian piano tutto si è assestato con alcuni piccoli punti di riferimento. A questo sentimento di spaesamento ho deciso di rispondere con un “proto-lavoro” (un lavoro che funziona più da appunto che da lavoro finito). Ho creato tre cartelli che funzionavamo come una sceneggiatura sparpagliata nella strada in cui vivevamo. Il personaggio della storia era un uomo non bene identificato, che ripeteva un percorso ogni venti minuti. Il racconto era di sicuro abbastanza esistenzialista e i cartelli cercavano un po’ di interrompere il flusso di quotidianità delle persone che passavano per strada.

 

 

Inoltre, un altro aspetto molto importante era la completa mancanza di uno spazio neutro. La realtà appariva talmente complessa che aggiungere qualcosa non avrebbe fatto la differenza, a meno che la sua scala non fosse davvero monumentale. Questo mi ha molto rilassato; aggiungere un oggetto era un atto semplice e disinteressato. Per questo motivo, mi sono sentito libero di costruire una scultura da lasciare sulla spiaggia del fiume Brhamaputra.

 

 

Visto che hai menzionato i Blauer Hase, come è nato il gruppo e quali sono state le esigenze e gli interessi che vi hanno portato a costituirlo?
Lo spazio del collettivo è uno spazio di sperimentazione e formazione reciproca. Condividiamo molte idee e spesso è visibile una linea netta tra quello che concepiamo come ricerche personali e quello che seguiamo quando lavoriamo collettivamente.
Come Blauer Hase ci siamo spesso interrogati se fossi un gruppo che poteva adottare un manifesto programmatico ma abbiamo pensato che un approccio di questo tipo poteva risultare riduttivo e quasi noioso. Abbiamo quindi coniato la formula che a richiesta di un manifesto noi avremmo sempre risposto che adottiamo il suo opposto ovvero: “un latento”. Questa espressione, oltre che essere divertente, significa che abbiamo preferito non definirci in un programma in punti ma lasciare che quello che è latente nelle nostre menti possa crescere attraverso i progetti.
La linea di ricerca che abbiamo impostato negli ultimi anni è quella della sperimentazione sulle forme culturali. Durante il 2009 abbiamo avuto la possibilità di formarci con un progetto che si chiamava Rodeo. Questa esperienza ci ha dato un panorama di riferimento per le sperimentazioni degli anni successivi e ci ha portato ad affrontare la creazione di workshop, pubblicazioni, radiodrammi e festival.

 

Mi racconti del vostro ultimo progetto, Helicotrema 2013, che avete presentato a Roma tra il MACRO, l’Auditorium Parco della Musica e la sede di RAI Radio 3?
Helicotrema è un festival dedicato all’ascolto collettivo di tracce audio registrate. Ci siamo ispirati alle situazioni che si sono create quando i primi apparecchi radiofonici venivano ascoltati collettivamente in soggiorno come in piazza. La fascinazione tecnologica che univa quelle persone è in parte ricreata spostando l’attenzione su l’idea di dare spazio a composizioni musicali sperimentali, radio-documentari, radio-teatro e a tutti quei formati che sfruttano il mezzo audio. Il progetto di Helicotrema è nato nel 2012 grazie all’aiuto di Giulia Morucchio, Paolo Rosso e l’associzione Microclima, che ci ha ospitati nella sede della Serra dei Giardini. La Serra è un luogo magico e in quelle sere si è creato un fantastico clima di ascolto e di condivisione di una proiezione sonora. Siamo stati davvero fortunati! Mentre Helicotrema 2013 è stato organizzato in collaborazione con il MACRO, con la Fondazione Parco della Musica e con Rai Radio 3. Credo sia stato molto importante per noi metterci alla prova in questo cambiamento di scala, dove dalla realtà della comunità siamo arrivati a lavorare con quelle istituzioni. Di questa edizione io conserverò sempre il ricordo della serata a Rai Radio Tre, dove Antonio Audino e Nicola Catalano hanno condotto una trasmissione in diretta al sabato sera, inserendo all’interno alcuni pezzi che davano un’idea dei lavori che erano ospitati dentro a Helicotrema. È stato fantastico avere una situazione con 80 persone tra il pubblico e 1 milione e mezzo di ascoltatori radiofonici.

 

Quanto ai tuoi lavori personali, invece, prediligi come mezzi espressivi il video e la scultura. Puoi raccontarmi del tuo ultimo lavoro Dubbing the Chinese Empire?
Dubbing the Chinese Empire è un lavoro che sono riuscito a portare a termine dopo quasi tre anni di incubazione dentro la testa. Mi sono reso conto che avevo bisogno di un referente a cui presentare le costruzioni mentali che sentivo nella mia testa.
Il lavoro svolto da Adam Curtis è stato fondamentale. The Power of Nightmares è stato praticamente il mio dizionario di riferimento per molti dei lavori video che ho sviluppato dopo il 2007. Osservando The Power of Nightmares, visual essay in quattro puntate prodotto per la BBC, ho capito quali sono gli elementi minimi che mi interessano nella creazione di un video, che abbia i connotati di un saggio. Questo è un territorio che mi interessa ancora molto: riuscire a dare forma ad alcune teorie o pensieri, esplicitare le immagini, metterle a confronto, utilizzare una situazione didattica, creare un momento esplicativo.
Dubbing the Chinese Empire appartiene a questa ricerca. Ho raccolto immagini che ritenevo rappresentative non tanto della Cina, ma dello sguardo occidentale sulla Cina. Ho quindi creato un testo che esplicitava tutto ciò che vedevo in quelle immagini, in quella costruzione del mondo. Ho pensato, quindi, di unire questi due elementi in una specie di reportage di guerra, dove le immagini che avevo trovato venivano proiettate addosso ad uno pseudo giornalista che io stesso impersonavo. Tutto il video è una sorta di lungo reportage su come sta andando un non ben precisato stato di guerra mediatico, condito da scivoloni retorici e ironia.

 

 

Guardando invece le tue opere scultoree, queste si compongono frequentemente di dispositivi che tu stesso crei e trasformi in strumenti attraverso cui agire, tali da diventare dei prolungamenti della tua presenza fisica all’interno dello spazio espositivo. Cosa ti interessa esplorare attraverso queste “macchine mobili”? 
Mi fa piacere che tu usi l’espressione “prolungamenti della tua presenza fisica”, perché le prime volte che ho sperimentato seriamente l’uso di aggeggi, veri e propri prolungamenti delle mie braccia. Pian piano mi sono allontanato da questo punto di ricerca e ho cominciato ad essere affascinato da movimenti ripetitivi e dai possibili usi della luce. Non è una ricerca costante, ma è guidata da certe visioni che mi spingono a creare questi oggetti protomeccanici. Mentre li costruisco cerco due cose: l’esperienza della costruzione di qualcosa (si badi bene, costruzione e non creazione) e un’immagine finale del lavoro nel suo contesto di sopravvivenza. Inoltre mi piace poter isolare un movimento ripetitivo, quasi stupido ed impacciato. Una volta finite, queste macchine mobili esprimeranno sempre in un certo grado di ironia. Un equilibrio ironico.

 

Invece la fase di progettazione, come avviene? E quali sono le tue fonti di ispirazione per i tuoi lavori?

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Nei titoli delle tue sculture conferisci spesso all’opera nomi propri di persona. Questo aspetto, associato ai meccanismi mobili che li caratterizzano, li rende simili ad entità viventi. Tali scelte sono funzionali ad un avvicinamento dello spettatore all’opera? Oppure hanno altre finalità?
Quando mi ritrovo a essere affascinato da alcuni movimenti o congegni, sento la necessità di dare a questi oggetti una base narrativa in cui attivarsi. Mi piace l’idea che Bob (la scultura) possa fare parte di un’ideale commedia dove il suo palco sia lo specchio d’acqua che lo accoglie, e il suo copione sia quello di salutare – a ogni cambiamento di vento – la memoria del primo (o quasi) uomo che ha concluso (da vivo) la circumnavigazione del globo.

 

A proposito del tuo lavoro Bob salutes Sir Francis Drake as he completes the first Circumnavigation of the Earth (2012), esso rappresenta una scultura galleggiante in grado di muoversi liberamente tra le acque del parco per il quale è stato concepito, ovvero il Parco sculture di Forte Marghera. Quali aspetti della storia di Sir Drake hai sentito così vicini tanto da volergli dedicare un’opera?
Mi sono immaginato Sir Francis Drake nella sua quotidianità: vivere in mezzo all’oceano con la sola fiducia nelle proprie carte e nelle proprie conoscenze, affrontare un panorama blu sempre uguale e ritrovarsi nello stesso luogo apparente, senza avere percezione diretta dello spostamento che si è fatto. Questa sensazione era quella che mi ha spinto all’inizio a pensare a una presenza galleggiante nel nulla. Ritengo fantastica la possibilità di appropriarmi delle molte storie che si sono svolte nel passato: è come inserirsi in un romanzo. Vorrei infatti sottolineare che solo dopo aver realizzato questo lavoro ho cominciato a leggere la biografia di Sir Francis Drake. Devo dire che ho trovato un sacco di materiale interessante riguardo la sua famiglia o al suo modo di concepire le spedizioni: era capace di farsi trascinare dall’entusiasmo e arruolare il doppio degli uomini per poi scoprire di non avere sufficienti vettovaglie. Quando ciò accadeva, assaltava un’isola a caso nel nome di Dio e della Regina.

 

In lavori come quest’ultimo, ma anche “Vedere un oggetto. Vedere la luce” o “Hector, in Carrara” è ricorrente la presenza di elementi naturali quali l’acqua, la luce o il vento, che diventano strumenti di attivazione dell’opera. Cosa ti affascina maggiormente tanto da renderli essenziali e funzionali allo stesso tempo?
Credo che spesso utilizzo questi elementi, perché possono essere facilmente riconoscibili come elementi discreti all’interno di una composizione leggermente complessa. Credo ormai faccia parte del mio linguaggio pensare a certi lavori con questa modalità compositiva, come se cercassi comunque di sussurrare qualcosa e non di gridare.

 

Come descriveresti una città come Venezia? E cosa ti ha lasciato?
Venezia è una città che ti culla. Un paesaggio per la mente dove le persone e le cose sono tutte a distanza ravvicinata. E’ di sicuro una città non facile e a volte vorresti che ci fosse una metropolitana o una circonvallazione di piste ciclabili. Trovare un posto dove lavorare è molto complesso e c’è il rischio di perdere l’orizzonte di possibilità di cui le grandi metropoli si fanno tanta pubblicità. Ma non importa perché si impara a dedicare attenzione alle persone, alle cose e al tempo.

 

Mario Ciaramitaro (1985), laureato all’Università IUAV di Venezia, lavora tra Modena e Venezia. Dal 2007 è co-fondatore e membro del gruppo Blauer Hase Collective, con cui nel 2009 vince la residenza per giovani artisti presso la Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia. Ha partecipato a diverse mostre collettive tra cui Vedere un oggetto. Vedere la luce (2011), presso la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo; Okay, I have had enough, what else can you show me? (2010), presso DOCVA, centro di documentazione per le arti visive, organizzato da Careof e Viafarini, a Milano; e la 92a Collettiva dei Giovani Artisti della Fondazione Bevilacqua La Masa (2008).

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