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Intervista a Enrico Tealdi

Chi è Enrico Tealdi?
Umanamente sono una persona con un carattere complesso. Sono capace di essere determinato e anche coraggioso, ma con una grandissima fragilità di fondo perché sono molto emotivo. Riesco a nascondere piuttosto bene tutto questo. Sono capace di essere divertente e di compagnia, ma so anche stare solo senza soffrirne perché la solitudine è parte di me, ma se non sento affetto e cura verso ciò che faccio e me stesso, sono una persona perduta.
Nel mio lavoro, non voglio usare la parola artista perché mi è difficile capire oggi cosa significhi. Quando guardo a me, mi vedo come uno “scrittore” di immagini.
Se leggo un libro, una poesia, inevitabilmente immagino quello che sto leggendo, rivedo luoghi, situazioni, volti che in fondo conosco. Lo stesso credo che valga per le mie opere: chi le guarda vede qualcosa che va a smuovere il proprio album interiore e si riconosce in ciò che sono stato io a proporre ,ma non appartiene più a me solo.

 

C’è stato un incontro o un’esperienza che ha segnato la tua carriera artistica?
Ho avuto incontri con persone, “addette ai lavori”, che mi hanno aiutato e guidato. Molte letture illuminanti, ma il vero incontro con l’arte e la sua lingua è avvenuto da bambino. Vivendo in campagna e percorrevo le strade in bici ,mi imbattevo spesso nelle pitture dei piloni ed edicole votive che suscitavano in me grande interesse e passione. Poi un giorno, avrò avuto 6 o 7 anni, in uno dei miei giri mi sono fermato davanti al cancello di una villa settecentesca abbandonata. E’ stata una visione. Ho cominciato a subire il fascino del tempo che passa su tutto; dell’uomo che dimentica e trascura, ma non riesce e, a volte, non vuole cancellare. Le persone, gli oggetti abbandonati, le stanze vuote raccontano tutto quello che non c’è più, ma la memoria e il senso dell’attesa e del sospeso rimangano intatti. Io credo di avere iniziato a disegnare, dipingere, come risposta a quello che accadeva nella mia storia personale. Ricordo di avere sempre vissuto in mezzo all’allegria, ma di avere anche conosciuto prestissimo l’amarezza e la disperazione. Non dipingo per curarmi, ma per rispondere, per dire anche un no a cosa ti dà la vita. La Bellezza è la più grande delle risposte.

 

La tecnica che usi più spesso è quella di trasferire fotografie su carta per poi intervenire con tempere o acquerelli. Atmosfere surreali ospitano inserti materici e figure dal quotidiano. I lavori appaiono come terre di mezzo tra realtà e immaginazione. In che misura e modalità queste due dimensioni intervengono e interagiscono?
Avvolgo i miei soggetti in una sorta di “polvere”, che diventa come una lente per vedere la realtà attraverso il mio vissuto che è comune a molti.

 

Parti da un’accurata scelta d’immagini, che vengo quasi celate dalla successiva elaborazione pittorica. Al fruitore è richiesta un’alta attenzione visiva perché percepisca quello che sta dietro la campitura di colore. C’è una motivazione alla base di questa cifra stilistica?
Non esiste una vera e propria motivazione. La percezione del tempo è mutevole, può diventare un “ieri, l’altro” e scoprire che ne è passato moltissimo o viceversa. Mi piace pensare a come la nostra mente riesca a trattenere sospese e immutate alcune esperienze che contribuiscono alla costruzione e comprensione di noi stessi. Ci sono certi incontri con il vivere e con noi stessi che rimangono sospesi. Sono come i nodi che ci portiamo dentro, ci logorano e ci provano, eppure sono difficili da sciogliere, forse neppure lo vogliamo del tutto. Questa sensazione cerco di crearla nel mio lavoro.

 

Mi sembra che le tue opere abbiamo un protagonista ricorrente: Il tempo. Si tratta però di un tempo imprecisato, che gli spazi desertici e privi di connotazione non ci aiutano a riconoscere fisionomicamente. Che relazione c’è tra il tempo, la memoria e il tuo modus operandi?
Il tempo e la memoria ricorrono spesso nel mio lavoro, ma anche il fascino per il vissuto, la letteratura e la biografia. Leggo e scopro che il mio lavoro è come se fosse raccontato nei libri, è già negli oggetti che acquisto dai robivecchi, nelle cornici che aspettano .La scelta dei soggetti può essere legata alle letture o stimoli che arrivano dall’esterno e che traduco con il filtro della mia emotività. Anche se lavoro sulla memoria, mi servo di immagini contemporanee, spesso sono fotografie che scatto io durante i miei spostamenti, altre volte le cerco altrove. Avvolgo le mie figure in un’atmosfera di “polvere” che ottengo con una tecnica mista composta da una pittura che mescola colori acrilici, tempere, polveri, grafite e carboncino. Compaiono, come fuori campo, le prove colore, non voglio che siano estranee al mio lavoro. Sembrano errori, ripensamenti, sono come le “sbavature” che rendono speciale un’esistenza.

 

Fino al 15 novembre è visitabile la tua mostra “Era un piccolo mondo e si teneva per mano” a Milano, presso la Galleria Effearte. Mi racconti di questo progetto?
“Era un piccolo mondo e si teneva per mano” è una lirica scritta da Umberto Saba. In questo titolo, così dolce e intimo, sembra di sentire come una musica lontana che torna a cercarti, come un ricordo di ieri, ma di un ieri l’altro, non troppo vicino e neppure ormai lontano. Nelle opere che ho proposto in questa mostra appaiono, diversi soggetti che fanno parte del passato comune di tutti noi. Sono quelle che io chiamo: “le storie minime”, quelle quasi dimenticate, ma che il cuore conserva a dispetto dell’importanza che noi stessi diamo nel “archiviare” ciò che ci succede. Allora basta un colore, l’immagine di una giostra, una figura per ricordarti di un giorno vissuto, che si credeva poco importante e adesso torna a cercarti e toccarti come una carezza o una lama.

 

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(1) Faro, 2013,cm 23,5×26,5.
(2) Pomeriggio rosa, 2013,cm 24×26.
(3) Riflessi, in un interno, 2012, cm 24×30.
(4) Ring, 2012, cm 25×32,5.

 

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